Libri / "Il mito di Sisifo" di Albert Camus (1942)
Albert Camus. Il mito di Sisifo
(tit. or. Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942).
Milano, Bompiani 2001, pp. 137, € 6,80.
ISBN 8845246426
Pubblicato da Gallimard nel 1942, qualche mese dopo Lo straniero,
il libro di Albert Camus (premio Nobel per la letteratura nel 1957,
morto nel 1960 in un incidente automobilistico) è un testo che
interloquisce direttamente con la filosofia esistenzialista, allora in
auge.
«Qui si troverà soltanto la descrizione di un male
dello spirito allo stato puro, senza che, per il momento, sia congiunto
ad alcuna metafisica né ad alcuna fede». Queste note sono state premesse al testo, che comincia invece con queste fondamentali considerazioni: «vi
è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del
suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere
vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto
viene dopo».
Camus avvia dunque la più radicale riflessione sul senso della vita: «il
vivere sotto un tal cielo soffocante, richiede che se ne esca o che vi
si rimanga. Si tratta di sapere come se ne esca nel primo caso e perché
si resti nel secondo» (p. 29). La mancanza di senso generata
dall’incontro col mondo rende l’uomo “assurdo”. Egli si rende conto di
essere tale quando affronta le grandi questioni esistenziali: «cominciare a pensare è cominciare a essere minati» (p. 8), «perché
le dottrine, che mi spiegano tutto, mi indeboliscono nel medesimo
tempo. Esse mi sgravano del peso della mia vita, ma con tutto ciò
bisogna bene che io lo porti da solo» (p. 52).
Se la morte è un orizzonte ineliminabile e i valori
su cui si basano le diverse scuole di pensiero (religiose e non) non
sono in grado di giustificare alcuna scelta, all’“uomo assurdo” non
resta che darsi alla ricerca di una vita piena. «Non vuol fare quello
che non capisce. […] Egli non sente che questo: la propria innocenza
irreparabile. E questo gli permette tutto. Cosicché, ciò che egli
richiede da se stesso è solamente vivere con ciò che sa, adattarsi a ciò
che è, e non far intervenire nulla che non sia certo. Gli viene
risposto che niente lo è: ma questa, almeno, è una certezza. […] A
questo punto il problema è invertito. In precedenza si trattava di
sapere se la vita dovesse avere un senso per essere vissuta; appare qui,
al contrario, che essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà
alcun senso. Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente». (p. 50). Perché «per
un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello
dell’intelligenza alle prese con una realtà che la supera. Lo spettacolo
dell’orgoglio umano è ineguagliabile» (p. 51).
Se dunque non esistono valori, occorre aumentare il numero di esperienze e cercare di avere una vita lunga: «Battere
tutti i record significa, in primo luogo e unicamente, trovarsi di
fronte al mondo il più spesso possibile […] L’errore è quello di pensare
che una tal quantità di esperienze dipenda dalle circostanze della
nostra vita, mentre non dipende che da noi» (p. 57). Va quindi sottolineata la vitalità del messaggio dell’autore: «l’universo qui suggerito vive soltanto in opposizione a quella costante eccezione che è la morte» (p. 58). Ancor meglio, si potrebbe addirittura parlare di urgenza: «Dal
punto di vista di Sirio, le opere di Goethe fra diecimila anni saranno
polvere e il suo nome sarà dimenticato […] Di tutte le glorie la meno
fallace è quella che si vive» (p. 74). E ancora: «non ignoriamo
che tutte le Chiese sono contro di noi […] Quello che esse apportano è
una dottrina, alla quale bisogna sottoscrivere. Ma io non so che farmene
delle idee e dell’eterno. Le verità, che sono alla mia portata, possono
essere toccate dalla mia mano» (p. 84).
Sisifo, secondo il mito, fu condannato dagli dèi a
trasportare per l’eternità un pesante masso fino alla sommità di un
colle, dove il masso sarebbe invariabilmente rotolato a valle,
costringendo quindi Sisifo a ricominciare la fatica daccapo. Per Omero,
Sisifo era il più saggio dei mortali. Camus vede quell’uomo «ridiscendere
con passo pesante, ma uguale, verso il tormento, del quale non
conoscerà la fine […] In ciascun istante, durante il quale egli lascia
la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dèi, egli è
superiore al proprio destino» (p. 119); «Tutta la silenziosa
gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è
cosa sua […] Egli sa di essere il padrone dei propri giorni» (p. 120); «Sisifo
insegna la fedeltà superiore, che nega gli dèi e solleva i macigni.
Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza
padrone, non gli appare sterile né futile […] Anche la lotta verso la
cima basta a riempire il cuore di un uomo» (p. 121).
Iniziato all’insegna del nichilismo, il libro si conclude con inno alla vita: «Bisogna immaginare Sisifo felice».
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