Un pioniere degli antivirali
Lo scienziato che ha sviluppato il farmaco contro l’epatite C e altre molecole per combattere il virus dell’AIDS racconta la sua storia professionale
Raymond Schinazi è l’uomo che ha sviluppato il maggior numero di farmaci antivirali al mondo: otto, tutti fondamentali. Quelli contro l’AIDS hanno regalato moltissimi anni di vita a milioni di persone e il sofosbuvir che ha messo a punto contro l’epatite C ne ha già salvate centinaia di migliaia, aprendo la strada ad altre cure che hanno rivoluzionato la storia di questa malattia.
La sua storia umana e scientifica meriterebbe un film. La racconta in una sola immagine una fotografia che lo scienziato porta sempre con sé nel cellulare, e che lo vede ritratto sorridente insieme a un gruppo di militari egiziani. Per uno di quegli strani scherzi della storia e del destino, lo stesso esercito che ai tempi di Nasser aveva spinto alla fuga la sua famiglia, insieme agli altri ebrei che vivevano in Egitto, lo riaccoglieva in patria come un eroe, per aver messo a punto il farmaco contro l’epatite C, che proprio lì è diffusa come in nessun altra parte del mondo: una persona su cinque, anche nell’esercito, è portatrice del virus.
Come mai questa peculiarità dell’Egitto?
Perché Nasser, in quegli stessi anni, aveva dato il via a una campagna per il trattamento di massa della schistosomiasi, una parassitosi allora endemica nel paese. Le iniezioni intramuscolari di composti antimoniali, effettuate con scarsa attenzione alla sterilità, avevano diffuso in maniera capillare e silenziosa nella popolazione il virus dell’epatite C, che a quei tempi ancora non era stato nemmeno scoperto.
E lei, che da Nasser era stato cacciato, ha trovato un rimedio efficace. Il sofosbuvir è anche il primo farmaco capace di curare un infezione virale cronica, inserendola quindi a pieno titolo tra coloro che hanno fatto la storia della medicina: che impressione le fa?
Veramente non penso che sia stata questa la mia scoperta più importante. Sono ancora più orgoglioso dei risultati raggiunti nei confronti dell’AIDS, che per gravità e rapidità di evoluzione aveva un impatto molto maggiore di quello dell’epatite C. tra gli anni ottanta e novanta la malattia stava facendo una strage, a cui riuscimmo a mettere un freno con la scoperta di due molecole, emtricitabina (in sigla FTC) e lamivudina (meglio nota come 3TC), che non solo erano capaci di inattivare il virus, ma erano ben tollerate anche da chi le doveva assumere quotidianamente e in maniera cronica.
Quei medicinali, per uno dei quali è già scaduto il brevetto, hanno rappresentato un punto di svolta fondamentale per lo sviluppo della successiva classe di farmaci, gli inibitori della proteasi (HAART, Higly Active AntiRetroviral Therapy), ma sono ancora fondamentali nei protocolli terapeutici: circa il 94 per cento dei pazienti con questa malattia in tutto il mondo prende ogni giorno almeno una delle medicine che ho messo a punto alla Emory University di Atlanta.
Quale fu il passo successivo?
Il 3TC, messo a punto contro l’HIV, si rivelò poi utile anche nei confronti dell’epatite B, un’altra malattia con un carico globale pesantissimo, nonostante una vaccinazione efficace che non è ancora riuscita a eliminare il virus. La cura non era efficace come quella che avremmo poi scoperto per l’epatite C, ma aveva comunque meno effetti collaterali dell’interferone, che fino a quel momento era l’unica terapia disponibile.
Torniamo al sofosbuvir contro l’epatite C: come è arrivato proprio lei a questo risultato dopo che tanti altri avevano fallito?
Sicuramente abbiamo avuto anche fortuna, oltre all’esperienza che ci portavamo dietro dalla lotta contro gli altri virus, soprattutto HIV. Il primo “colpo di fortuna” fu che il virus dell’epatite C, diversamente dall’HIV, non si integra nel DNA dell’ospite, e quindi non riesce a nascondersi così facilmente all’attacco dei farmaci. Un altro aspetto per cui possiamo ritenerci fortunati è che si tratta, per così dire, di un virus “zoppo”, che si poteva quindi eliminare con facilità. Il nuovo farmaco riusciva a farlo sparire dal sangue in sole 12 settimane (ora è stato dimostrato che, a seconda dei casi, la cura può essere anche più breve), senza nessun effetto collaterale di rilievo. Per questo qualcuno voleva chiamarlo “perfectovir”.
Il sofosbuvir è andato in prima pagina pr la sua efficacia, ma anche per i suoi costi, che hanno reso difficilmente sostenibile la terapia anche nei paesi più ricchi. Che cosa ne pensa?
Sono d’accordo che il prezzo iniziale posto da Gilead al farmaco, di circa 1000 dollari a compressa, che significava oltre 800.000 dollari per la cura completa, era eccessivo. D’altra parte l’azienda si è assunta un grosso rischio quando ha acquistato per 11 miliardi di dollari l’azienda biotech Pharmasset che io avevo fondato. Nel prezzo erano compresi i diritti per le due molecole, entrambe in dirittura d’arrivo, a pochi mesi dall’approvazione da parte della Food and Drug Administration. Come non sono riusciti a registrare l’altro farmaco, potevano fallire anche con sofosbuvir, e in quel caso l’investimento sarebbe andato a vuoto. Nella mia vita ho fondato diverse biotech, ed è capitato anche a me di puntare sul cavallo sbagliato e perdere molto denaro.
Questa sua figura di scienziato-imprenditore è molto innovativa. Nel percorso dall’accademia all’industria che lei personifica, le aziende non finiscono però per approfittare della ricerca di base finanziata con denaro pubblico?
Assolutamente no. È vero che oggi molte aziende farmaceutiche acquistano biotech nate come spin-off dalle università, invece di condurre il percorso di ricerca dalla base, ma nel mio caso sono stato costretto a fondarle, mettendoci denaro mio, perché non ricevo finanziamenti pubblici sufficienti a portare avanti il lavoro. Il sofosbuvir è stato messo a punto da Pharmasset, non all’Emory University. Al momento della cessione, non facevo più parte del board, ma avrebbe potuto essere ceduta al governo, se fosse stata fatta un’offerta paragonabile a quella di Gilead.
Solo per quest’ultima transazione, lei ha ricevuto 400 milioni di dollari lordi.
I farmaci efficaci e sicuri hanno questo effetto collaterale, che fanno guadagnare soldi. Ma se facessi ricerca per denaro, e non per salvare vite, avrei già appeso il camice al chiodo. Invece, continuo a lavorare senza tregua, insieme alle oltre 50 persone del laboratorio che dirigo. E con quei soldi stiamo ora cercando una cura per l’epatite B e altri virus emergenti.
Fonte: Le Scienze 588 (Agosto 2017)
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