Rinviare, diluire, tagliare: nuove trovate e vecchie ricette nella Legge di Stabilità 2016 (Prima parte)

Uno degli aspetti più ridicoli della presentazione della legge di bilancio 2016 è stato il marchio espansivo della manovra, che secondo la coppia Renzi-Padoan segnerebbe una discontinuità con la tradizione. Secondo questa vulgata, il governo avrebbe finalmente avuto il coraggio di rompere con l’acquiescenza alle direttive europee, per varare un programma innovativo di stabilità e di crescita. Non di soli tagli si tratterebbe, ma di misure orientate alla “ripresa dello sviluppo”.

Pur facendo gli opportuni distinguo alle manovre “lacrime e sangue” degli anni precedenti l’ingresso nell’Euro, la legge finanziaria costituisce comunque una cartina al tornasole importante dei rapporti tra le classi e della regolazione dei loro reciproci interessi, per cui vale la pena provare a ragionarci sopra con la dovuta attenzione.

Come sempre, la manovra presentata a metà ottobre segue un percorso parlamentare segnato da interventi e modifiche, che possono cambiarne aspetti non marginali. Tuttavia l’impostazione di fondo, i saldi finali e la struttura politica del disegno sottostante non sono modificabili ed usciranno sostanzialmente indenni dai vari passaggi intermedi. Il ragionamento ha quindi ragion d’essere fin da ora.

Il primo dato che emerge è che il deficit annuale del paese è oggi al 2,6 per cento e che la legge di stabilità intende portarlo nel 2016 al 2,4 per cento. Ci muoviamo quindi nell’ambito della stretta osservanza dei parametri europei e non c’è nessun “cambiamento di verso”. Se si volesse varare una coraggiosa manovra espansiva e sfidare l’Europa, occorrerebbe salire almeno sopra il 3 per cento, con una aperta rottura dei vincoli e la messa in discussione delle politiche di austerità. Ma il governo sta solo eseguendo il mandato, come prima avevano fatto Monti e Letta, senza osare nulla che possa turbare gli euro-burocrati. I quali peraltro, hanno già espresso un giudizio molto diffidente sulla manovra, riservandosi un ulteriore esame entro i prossimi 6 mesi, prima di esprimere semaforo verde.

Quali sono i dubbi espressi sulla manovra da Bruxelles e dalla stessa Corte dei Conti? In buona sostanza, lo stile del governo nel vendere fumo. Come è noto infatti il governo ha venduto la manovra 2016 come composta da 31,8 miliardi di euro di impieghi (maggiori spese per 5,4 miliardi e minori entrate per 26,5 miliardi), a fronte di 14,1 miliardi di euro di risorse (minori spese per 8,4 miliardi e maggiori entrate per 5,7 miliardi). Detto così non si capisce niente, ma se invece andiamo ad analizzare ogni singola voce è possibile farsi un’idea abbastanza precisa di cosa cambia, per chi, e in quale direzione. Com’è ovvio, è la somma che fa il totale, ma è la disaggregazione e la ricombinazione dei provvedimenti che restituisce il senso economico e sociale dell’impianto complessivo.

Secondo il governo, la manovra è espansiva perché ci sono 26,4 miliardi di minore entrate. In realtà questa cifra include varie voci: la più rilevante (16,8 miliardi) è il rinvio dell’innalzamento di 2 punti delle aliquote IVA e di altre accise, nota come clausola di salvaguardia. Questa clausola risale a precedenti governi, ma è stata confermata da Renzi: era ed è una garanzia permanente, pretesa da Bruxelles, sulla determinazione degli inaffidabili governi italiani nel continuare a perseguire il risanamento delle finanze pubbliche. Ora Renzi ha deciso di soprassedere (per un anno) e mette arbitrariamente questa cifra all’attivo delle misure di espansione, come se gli italiani potessero o volessero spendere di più, per il solo fatto di non dover subire un immediato aumento dell’imposta sui consumi (una tassa peraltro tra le più inique, che colpisce i consumatori a prescindere dal reddito e in modo regressivo). Questo rinvio non risolve nulla, naturalmente, perché la clausola potrebbe scattare il prossimo anno con effetti ancora più ppesanti (ai 16,8 miliardi si dovrebbero allora aggiungerne 11,1 nel 2017 e poi altri 9,4 nel 2018: in tutto sarebbero oltre 37 miliardi di maggiori entrate fiscali, una cifra da polverizzare lo sbandierato “tagli delle tasse”). E sarebbero tasse destinate a colpire in modo indiscriminato i consumatori, riducendo il potere d’acquisto di salari e pensioni.

Un’altra voce rilevante di questo aggregato è la misura che forse ha suscitato le maggiori polemiche: 4,5 miliardi di taglio alla TASI sulla prima casa e all’IMU di terreni agricoli e impianti industriali fissati a terra, i cosiddetti “imbullonati”. L’elemento di maggiore criticità è ovviamente costituito dal taglio della TASI. Il governo ha voluto varare una misura di taglio evidentemente elettorale (ricordate l’eliminazione dell’ICI annunciata da Berlusconi in diretta TV la settimana prima delle elezioni 2008?). Per pararsi dall’ondata di sdegno, il governo ha poi precisato che sono esclusi gli immobili di “lusso” di categoria A1-A8-A9, ma si tratta di foglie di fico: in tutto sono 70.000 immobili su oltre 20 milioni e di fatto si consente di risparmiare almeno 3 miliardi di euro sulla prima casa anche a chi possiede centinaia di immobili… Il taglio della TASI peraltro priva gli enti locali di entrate importanti e aggrava lo stato di dissesto delle loro casse, già provate da tagli pluriennali e dalla soppressione delle province, con scarico degli oneri sul altri enti.


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