Rinviare, diluire, tagliare: nuove trovate e vecchie ricette nella Legge di Stabilità 2016 (Seconda parte)
Un’altra voce ancora è rappresentata dalla riduzione di 2,6 miliardi dell’IRES, l’imposta sulle società. Prevista in un primo tempo per il 2017, il governo aveva deciso di anticiparla al 2016, pur subordinandola al riconoscimento da parte di Bruxelles di una clausola di flessibilità da 3,1 miliardi di euro legata alla maggior spesa prevista per l’accoglimento del flusso di migranti sulle nostre coste. Dopo gli attentati di Parigi, il governo ha fatto marcia indietro: ritorno alla impostazione iniziale e investimento delle relative risorse su sicurezza e cultura (???).
Tutto viene nuovamente rinviato di un anno, quando l’IRES scenderà dall’attuale 27% al 24,5%, per scendere poi ulteriormente al 24%. È una misura che si aggiunge all’imponente massa di trasferimenti prevista a favore delle imprese nell’arco dell’intero triennio 2015-2017. Già con la Legge di stabilità 2015 (L. 190/14), tra decontribuzione per nuove assunzioni e deduzione del costo del lavoro a tempo indeterminato dall’imponibile IRAP, per il triennio 2015-2017, sono stati impegnati oltre 25 miliardi di euro a favore delle imprese (11,8 miliardi per gli esoneri contributivi e 13,7 miliardi per la deduzione IRAP).
Oltre alle suddette misure, erano state previste altre risorse per le imprese (incremento ACE, patent box e fondo R&S, fondo garanzia per le Pmi, Fondo promozione Made in Italy), per circa 4 miliardi di euro nel triennio. A questo si aggiunge ora l’abbassamento dell’IRES, che pur rinviando il taglio di un anno, ridurrà le tasse sugli utili societari di 3,8 miliardi nel 2017 e 4 miliardi nel 2018. Tutto questo ci consente di conteggiare quanto viene a costare, al contribuente italiano, la creazione concreta di un posto di lavoro ai tempi di Renzi. Se consideriamo infatti che l’esenzione del costo del lavoro dall’IRAP vale almeno, per l’anno scorso, 5 miliardi di euro, che la decontribuzione prevista per i neo assunti valeva, già a fine agosto, almeno 1,4 miliardi di euro e che il numero dei nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato era di circa 106.000 addetti, scopriamo che ogni nuovo lavoratore è costato allo Stato circa 60.000 euro! E non abbiamo alcuna certezza che questo lavoratore non venga alla fine rimandato a casa sfruttando il Jobs Act, una volta esauriti gli effetti della decontribuzione.
Mai era accaduto che un investimento così massiccio di risorse producesse un effetto così scarso: l’andamento dell’occupazione nei primi nove mesi del 2015 è pari ai primi tre trimestri del 2014 (ci sono circa 26.000 contratti di lavoro in più), ma la qualità sembra addirittura peggiorata (il 15% dei lavoratori è precario, un record quasi uguale al top del governo Monti). La differenza è che ci sono 12 miliardi di investimento in più, tra quelli già stanziati e quelli in programma!
Pesa anche il fatto che l’aiuto alle imprese non assume alcun criterio selettivo: ha il solito carattere “a pioggia”, senza alcuna discriminazione tra aziende che creano lavoro stabile o di qualità, rispetto a quelle che usano i benefici fiscali “mordi e fuggi”.
Un vantaggio fiscale non secondario per le imprese è poi costituito dal “super-ammortamento”, la possibilità cioè di scaricare nel triennio il 140% degli investimenti effettuati. Si tratta di un “acceleratore” appetibile per i padroni privati che vogliono investire, ma la misura piuttosto contenuta delle minori entrate previste (in tutto il triennio 2,4 miliardi) la dice lunga, sia sullo “sciopero degli investimenti” da tempo in atto tra gli imprenditori italiani, che si guardano bene dal reimmettere risorse personali nel sistema produttivo, sia della sostanziale sfiducia che attanaglia il sistema economico (gravato tra l’altro da oltre 200 miliardi di sofferenze bancarie).
Del resto sono ben noti i fattori strutturali di debolezza dell’economia italiana, che questa manovra non intacca in alcun modo. Nulla lascia presumere che si possa fermare il declino, dovuto in prevalenza alla carenza di capitale e di investimenti. In Italia, nel periodo 2008-2014 la variazione del PIL (reale, a prezzi costanti) è stata del -9%, accompagnata da una caduta della produzione industriale di 25 punti e dei consumi di 8 punti. Ma il dato più rilevante è quello degli investimenti, che si sono ridotti del 30% e hanno contribuito da soli alla flessione del PIL per 6 punti percentuali, registrando una perdita rispetto alla tendenza pre-crisi che vale 100 miliardi l’anno. Questa caduta è stata ancora più grave per il Sud, come emerge dai dati diffusi dal Rapporto SviMez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, che nell’agosto scorso avevano provocato dichiarazioni taglienti del premier, tese ad accreditare la tesi di una disponibilità a “fare” finalmente qualcosa, anziché “piangersi addosso”. Invece, alla prova dei fatti, nella legge di stabilità non c’è alcuna misura che affronti con determinazione il divario e il dualismo che caratterizzano l’economia, i settori produttivi e le dinamiche sociali del Paese, o l’inefficacia delle politiche di coesione messe in campo finora. Se complessivamente negli anni 2008-2014 il valore aggiunto del settore manifatturiero è crollato in Italia del 17% contro una flessione dell’area Euro del 4%, il Sud ha perso il 35% del proprio prodotto, e ha più che dimezzato gli investimenti (-60%). una legge di Stabilità che ignora il Mezzogiorno mette nell’angolo tutti quegli strumenti, che storicamente, hanno provato a bilanciare gli svantaggi strutturali: selettività degli incentivi, fiscalità di vantaggio, credito d’imposta per investimenti in ricerca e innovazione, rafforzamento della dotazione del Fondo Sviluppo e Coesione.
La carenza di investimenti privati potrebbe essere compensata da uno sforzo aggiuntivo per investimenti pubblici. I vincoli di bilancio e soprattutto l’orientamento ideologico spingono invece in direzione opposta. Prosegue quindi il programma di privatizzazione, che si coniuga con la svendita di aziende private, quotate o meno sui mercati, a favore di capitali esteri. Mentre sono passate di mano recentemente Alitalia, Ansaldo Sts, Pirelli ed oggi è a rischio Telecom, il governo ha privatizzato Poste Italiane (incassando una cifra pari allo 0,15% del debito pubblico italiano…..): si passa ora alle Ferrovie e si punta alle municipalizzate. Del resto per invertire il segno alla politica economica servirebbe un volume di risorse pubbliche da investire nell’economia con un ordine di grandezza ben diverso rispetto alla spremitura ulteriormente consentita su pensioni e stipendi dei lavoratori dipendenti.
Soltanto una aperta rottura con le politiche di redistribuzione “al contrario” potrebbe produrre qualche risultato sul piano riformista. Solo una massiccia tassa patrimoniale potrebbe consentire uno scarto significativo, congiunta ad una seria lotta all’evasione fiscale. Sul primo versante non esiste possibilità alcuna: la salvaguardia dei capitali e dei patrimoni è un caposaldo dell’azione del governo e semmai si va in direzione contraria (come dimostra il provvedimento sulla TASI).
Tutto viene nuovamente rinviato di un anno, quando l’IRES scenderà dall’attuale 27% al 24,5%, per scendere poi ulteriormente al 24%. È una misura che si aggiunge all’imponente massa di trasferimenti prevista a favore delle imprese nell’arco dell’intero triennio 2015-2017. Già con la Legge di stabilità 2015 (L. 190/14), tra decontribuzione per nuove assunzioni e deduzione del costo del lavoro a tempo indeterminato dall’imponibile IRAP, per il triennio 2015-2017, sono stati impegnati oltre 25 miliardi di euro a favore delle imprese (11,8 miliardi per gli esoneri contributivi e 13,7 miliardi per la deduzione IRAP).
Oltre alle suddette misure, erano state previste altre risorse per le imprese (incremento ACE, patent box e fondo R&S, fondo garanzia per le Pmi, Fondo promozione Made in Italy), per circa 4 miliardi di euro nel triennio. A questo si aggiunge ora l’abbassamento dell’IRES, che pur rinviando il taglio di un anno, ridurrà le tasse sugli utili societari di 3,8 miliardi nel 2017 e 4 miliardi nel 2018. Tutto questo ci consente di conteggiare quanto viene a costare, al contribuente italiano, la creazione concreta di un posto di lavoro ai tempi di Renzi. Se consideriamo infatti che l’esenzione del costo del lavoro dall’IRAP vale almeno, per l’anno scorso, 5 miliardi di euro, che la decontribuzione prevista per i neo assunti valeva, già a fine agosto, almeno 1,4 miliardi di euro e che il numero dei nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato era di circa 106.000 addetti, scopriamo che ogni nuovo lavoratore è costato allo Stato circa 60.000 euro! E non abbiamo alcuna certezza che questo lavoratore non venga alla fine rimandato a casa sfruttando il Jobs Act, una volta esauriti gli effetti della decontribuzione.
Mai era accaduto che un investimento così massiccio di risorse producesse un effetto così scarso: l’andamento dell’occupazione nei primi nove mesi del 2015 è pari ai primi tre trimestri del 2014 (ci sono circa 26.000 contratti di lavoro in più), ma la qualità sembra addirittura peggiorata (il 15% dei lavoratori è precario, un record quasi uguale al top del governo Monti). La differenza è che ci sono 12 miliardi di investimento in più, tra quelli già stanziati e quelli in programma!
Pesa anche il fatto che l’aiuto alle imprese non assume alcun criterio selettivo: ha il solito carattere “a pioggia”, senza alcuna discriminazione tra aziende che creano lavoro stabile o di qualità, rispetto a quelle che usano i benefici fiscali “mordi e fuggi”.
Un vantaggio fiscale non secondario per le imprese è poi costituito dal “super-ammortamento”, la possibilità cioè di scaricare nel triennio il 140% degli investimenti effettuati. Si tratta di un “acceleratore” appetibile per i padroni privati che vogliono investire, ma la misura piuttosto contenuta delle minori entrate previste (in tutto il triennio 2,4 miliardi) la dice lunga, sia sullo “sciopero degli investimenti” da tempo in atto tra gli imprenditori italiani, che si guardano bene dal reimmettere risorse personali nel sistema produttivo, sia della sostanziale sfiducia che attanaglia il sistema economico (gravato tra l’altro da oltre 200 miliardi di sofferenze bancarie).
Del resto sono ben noti i fattori strutturali di debolezza dell’economia italiana, che questa manovra non intacca in alcun modo. Nulla lascia presumere che si possa fermare il declino, dovuto in prevalenza alla carenza di capitale e di investimenti. In Italia, nel periodo 2008-2014 la variazione del PIL (reale, a prezzi costanti) è stata del -9%, accompagnata da una caduta della produzione industriale di 25 punti e dei consumi di 8 punti. Ma il dato più rilevante è quello degli investimenti, che si sono ridotti del 30% e hanno contribuito da soli alla flessione del PIL per 6 punti percentuali, registrando una perdita rispetto alla tendenza pre-crisi che vale 100 miliardi l’anno. Questa caduta è stata ancora più grave per il Sud, come emerge dai dati diffusi dal Rapporto SviMez 2015 sull’economia del Mezzogiorno, che nell’agosto scorso avevano provocato dichiarazioni taglienti del premier, tese ad accreditare la tesi di una disponibilità a “fare” finalmente qualcosa, anziché “piangersi addosso”. Invece, alla prova dei fatti, nella legge di stabilità non c’è alcuna misura che affronti con determinazione il divario e il dualismo che caratterizzano l’economia, i settori produttivi e le dinamiche sociali del Paese, o l’inefficacia delle politiche di coesione messe in campo finora. Se complessivamente negli anni 2008-2014 il valore aggiunto del settore manifatturiero è crollato in Italia del 17% contro una flessione dell’area Euro del 4%, il Sud ha perso il 35% del proprio prodotto, e ha più che dimezzato gli investimenti (-60%). una legge di Stabilità che ignora il Mezzogiorno mette nell’angolo tutti quegli strumenti, che storicamente, hanno provato a bilanciare gli svantaggi strutturali: selettività degli incentivi, fiscalità di vantaggio, credito d’imposta per investimenti in ricerca e innovazione, rafforzamento della dotazione del Fondo Sviluppo e Coesione.
La carenza di investimenti privati potrebbe essere compensata da uno sforzo aggiuntivo per investimenti pubblici. I vincoli di bilancio e soprattutto l’orientamento ideologico spingono invece in direzione opposta. Prosegue quindi il programma di privatizzazione, che si coniuga con la svendita di aziende private, quotate o meno sui mercati, a favore di capitali esteri. Mentre sono passate di mano recentemente Alitalia, Ansaldo Sts, Pirelli ed oggi è a rischio Telecom, il governo ha privatizzato Poste Italiane (incassando una cifra pari allo 0,15% del debito pubblico italiano…..): si passa ora alle Ferrovie e si punta alle municipalizzate. Del resto per invertire il segno alla politica economica servirebbe un volume di risorse pubbliche da investire nell’economia con un ordine di grandezza ben diverso rispetto alla spremitura ulteriormente consentita su pensioni e stipendi dei lavoratori dipendenti.
Soltanto una aperta rottura con le politiche di redistribuzione “al contrario” potrebbe produrre qualche risultato sul piano riformista. Solo una massiccia tassa patrimoniale potrebbe consentire uno scarto significativo, congiunta ad una seria lotta all’evasione fiscale. Sul primo versante non esiste possibilità alcuna: la salvaguardia dei capitali e dei patrimoni è un caposaldo dell’azione del governo e semmai si va in direzione contraria (come dimostra il provvedimento sulla TASI).
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