Rinviare, diluire, tagliare: nuove trovate e vecchie ricette nella Legge di Stabilità 2016 (Terza parte)
Sul secondo versante, quella della lotta all’evasione, le misure del governo sono coerentemente compiacenti con quelle categorie abituate ad evadere. L’utilizzo del contante per i pagamenti tra privati può salire da 1000 a 3000 euro, strizzando l’occhio al mondo dell’evasione strutturata (e non solo di “sopravvivenza” come l’aveva chiamata Fassina). Del resto è evidente che su questo terreno i proclami sono stati sempre e solo di facciata: gli ultimi decreti della cosiddetta Delega Fiscale (Legge 23/2014), emanati a settembre scorso, confermano la volontà di tenere lenti i cordoni del contrasto alle forme di evasione ed elusione fiscale e avvantaggiare soprattutto le grandi imprese. Va in questo senso la depenalizzazione della grande elusione fiscale (la nuova definizione del cosiddetto “abuso del diritto”), la destrutturazione dell’Agenzia delle Entrate, la cancellazione del raddoppio dei termini (che rischi di risolversi in un condono generalizzato) e il blocco dell’aggiornamento del catasto. Quindi è normale che dalla lotta all’evasione e all’elusione vengano solo 500 milioni di euro nell’anno scorso, quando si stima che il sommerso valga almeno 270 miliardi, le risorse evase 130 miliardi (di cui solo l’Iva pesa per 50 miliardi). La stessa “Voluntary disclosure”, l’autodenuncia di capitali portati all’estero illecitamente, frutterà non più di 2 miliardi di euro (peraltro molto dubbi), un enorme condono tombale che ripulirà capitali di ogni origine e provenienza.
Sempre nell’ambito delle minori entrate, vale ancora la pena dedicare qualche riga alla detassazione dei premi aziendali. Introdotta nel 2009 come incentivo alla contrattazione aziendale degli incrementi di produttività, questa voce ha nel tempo eroso un piccolo pezzo della base imponibili, andando a costituire una sorta di zone franca, dove azienda e sindacati si accordano per pagare meno tasse e gratificare i lavoratori di aumenti netti più consistenti.
Dopo il mancato finanziamento nel 2015, la detassazione ritorna per il 2016 (400 milioni) e per gli anni successivi (600 milioni per 2017 e 2018). La soglia di reddito lordo per vederla applicata sale a 50.000 euro lordi annui, mentre la quantità di salario su cui strappare una tassa secca al 10% è di 2.000 euro (2.500 se contrattata in ambiti a gestione “paritetica” azienda-sindacato). C’è anche la possibilità di usufruirne come “welfare aziendale”, usando la gamma dei rimborsi assistenziali per spese dei figli e così via. Procede anche in questo modo una sorta di strisciante privatizzazione del welfare, con l’emergere di aziende private che mettono a disposizione delle parti “pacchetti di welfare” completi chiavi in mano, aggirando e smantellando un welfare pubblico sempre più sotto attacco.
Del resto l’attacco al welfare che negli anni precedenti si è concentrato sulla spesa pensionistica, prende ora di mira in modo speciale la spesa sanitaria. Nell’anno 2016, il Fondo Sanitario scende da 113,1 miliardi a 111 miliardi (-2,1 miliardi), un taglio che si aggiunge a quelli già previsti dalla precedente legge di stabilità (-2,352 miliardi a decorrere dal 2016). Con due sole manovre il Governo Renzi taglia 6,7 miliardi al finanziamento previsto nel Patto per la Salute 2014-2016, cancellandolo nei fatti. Complessivamente nel periodo 2016-2019 si prospetta una manovra per la sanità che sfiora i 20 miliardi di tagli, confermando il crollo dell’incidenza sul PIL della spesa sanitaria previsto dal DEF (dal 7% al 6,5%), il che relega il nostro Paese agli ultimi posti in Europa negli investimenti per la protezione sociale. Infatti dal 2017 al 2019, la previsione di tagli alle spese regionali verrà conseguita anche con interventi al finanziamento sanitario. Si impone così alle Regioni e alle P.A. un “contributo alla finanza pubblica” di 4 miliardi nel 2017 e di 5 miliardi per ciascuno degli anni 2018 e 2019, misura che prevede espliciti effetti sul finanziamento della sanità. La drammatica riduzione delle risorse pubbliche per garantire i livelli essenziali di assistenza e l’aumento del ticket, stanno spingendo verso la sanità privata a pagamento, senza contare che già oggi milioni di cittadini rinunciano alle cure per ragioni economiche e che in alcune regioni l’accesso alle prestazioni comprese nei LEA non è garantito.
Non diversa è la situazione per quanto riguarda il contrasto alla povertà: a fronte di un contesto che vede 6 milioni di poveri assoluti e altri 10 milioni di poveri relativi, lo stanziamento del governo per il 2016 si limita a 600 milioni di euro, mentre nei due anni successivi dovrebbero essere impiegati 1 miliardo di euro l’anno. Si tratta di interventi a tempo, non inseriti in un piano strutturale che garantisca l’universalità dell’assistenza a chiunque abbia i requisiti per accedere al Fondo di nuova istituzione: i nuclei famigliari in condizione di indigenza sembrano con tutta evidenza destinati a salire, se pubblicamente si ammette che un quarto delle famiglie è a rischio povertà/esclusione.
Del tutto inadeguate sono poi le risorse destinate alla ripresa della contrattazione nel pubblico impiego, dopo 7 anni di blocco. I 300 milioni l’anno destinati allo scopo rappresentano un aumento lordo potenziale di 12-13 euro al mese per i lavoratori dipendenti da amministrazioni con spesa centralizzata (1.300.000) e per quelli appartenenti alle forze armate (500.000), mentre nulla è previsto per gli addetti dipendenti di altri enti ed amministrazioni (1.200.000). resta in piedi il blocco dei turn-over, mentre ha ben scarso significato l’assunzione di 1500 “eccellenze” nel campo dell’università e della ricerca, quando si sa che le assunzioni sono bloccate dal 2007, i docenti sono stati ridotti del 22%, i precari del 97% e le immatricolazioni sono passate da 340 mila nel 2003/04 a 260 mila nel 2013/14. Il piano straordinario di reclutamento dei ricercatori, chiesto dalla Conferenza dei Rettori e dal Consiglio Universitario Nazionale, avrebbe bisogno di almeno 10.000 unità.
Una misura che è sfuggita ai più è l’ulteriore taglio delle risorse a CAF e patronati, come ringraziamento particolare del governo all’ “altra casta” che così bene si comporta nel mantenere l’ordine sociale nel sistema politico e nell’apparato produttivo: l’articolo 33 opera un taglio ai compensi dei CAF per 100 milioni, a decorrere dal 2016 (in seguito ridotti a 40 milioni per il 2016 e 70 per il 2017). Per i patronati si prevedeva invece il taglio di 48 milioni per l’esercizio 2016 (poi ridotti a 28) e la rideterminazione dell’aliquota di prelievo in modo da rendere strutturali i tagli agli istituti: una misura pesante che si aggiunge agli oltre 100 milioni di euro già tagliati negli ultimi 4 anni. Lo stesso vale anche per i CAF, che vengono da anni di blocco delle tariffe e cui l’aggiunta della certificazione ha comportato un aumento esponenziale dei premi assicurativi. Evidentemente il governo non intende esentare i sindacati, neanche quelli collaborativi e funzionali, dalla generale politica di taglio della spesa: la mediazione sociale serve fino a un certo punto in un modello dove è il mercato a dover far valere le sue leggi.
Un’indifferenza sociale che trova la sua piena espressione nelle politiche relative al mercato del lavoro. Dall’inizio della crisi sono andati persi in Italia circa 1.600.000 posti di lavoro, mentre altri 750.000 addetti possono essere considerati disoccupati “potenziali” per il peso della cassa integrazione e gli altri ammortizzatori sociali in deroga. In totale sono almeno 6/7 milioni le unità della forza lavoro attiva da considerare, a vario titolo, disoccupate/sottoccupate/scoraggiate. Il problema è particolarmente grave per le fasce giovanili della popolazione: la disoccupazione giovanile è destinata a restare, nelle stesse ammissioni del governo, al di sopra del 40% fino al 2019, mentre la disoccupazione ufficiale non scenderà sotto il 10% entro quella data.
Nonostante l’impianto liberista del mercato del lavoro costruito con il Jobs Act, si prevede una crescita timidissima dell’occupazione nel triennio: dallo 0,10% nel 2015 allo 0,7% del 2017. Nessun progetto concreto per assorbire l’enorme massa di giovani privi di reddito e di futuro.
Del resto sono impercettibili gli interventi previsti per ridare un minimo di dinamicità al mercato del lavoro. Gli effetti perversi della riforma Fornero non sono stati minimamente corretti: nonostante un dibattito molto vivace in proposito ed una proposta articolata messa a punto dall’INPS presieduta da Tito Boeri (peraltro molto pericolosa), nient’altro che chiacchiere è emerso dal dibattito estivo. L’unico strumento efficace sarebbe infatti la reintroduzione della flessibilità in uscita per i lavoratori prossimi alla pensione, misura che sarebbe gradita alle imprese e aprirebbe qualche spiraglio alla ripresa del turn-over in favore dei giovani inoccupati. Il dibattito si è però scontrato con il vincolo di bilancio e i conti dell’INPS (cui si sono addossate tutte le magagne del sistema previdenziale e assistenziale, minandone l’equilibrio), per trasformarsi in un esercizio accademico mirato a ridurre ulteriormente le prestazioni per i pensionati già in essere. Tutte le prestazioni “in deroga”, dall’opzione donna alla restituzione di un po’ di tasse ai pensionati poveri sotto i 15.000 euro, vengono infatti affrontate con la logica dell’ “autofinanziamento”, per cui le risorse vanno trovate dentro il sistema stesso, ridistribuendo internamente. Così è anche per la sperimentazione dell’istituto del “pensionamento attivo”, la possibilità cioè per chi matura i requisiti per la pensione di vecchiaia entro il 31.12.2018 di andare a part-time senza perdere i contributi (una misura non vincolata all’assunzione di giovani, che incentiva solo il risparmio per le imprese).
La stessa proposta di Boeri, che il governo ha per ora scelto di ignorare, prevede un reddito minimo da riconoscere ai 55enni privi di lavoro e di reddito, finanziato però dal taglio delle pensioni di chi supera i 32.000 euro di reddito familiare totale. La logica che ispira il presidente dell’Inps è peraltro coerente con la sua storia intellettuale: da sempre Boeri sostiene la necessità di mettere in sicurezza il sistema previdenziale imponendo il contributivo per tutti, cioè applicando il metodo attuariale privato che restituisce ai pensionati quello che hanno accumulato durante il lavoro (la pensione come frutto dell’astinenza). È l’attacco finale contro il sistema retributivo e l’ispirazione solidale della previdenza italiana, sferrato con l’argomento mistificatorio di una maggiore equità che corregga gli squilibri dovuti al trattamento riservato alle categorie che avrebbero “contribuito poco” e che adesso dilapiderebbero il patrimonio destinato alle nuove generazioni povere e precarie. Per tenere indenni stato e capitali privati, occorre far s’ che il sistema previdenziale sia affare interno alla forza lavoro, che le risorse possano solo essere ridistribuite dentro la stessa compagine, formata da lavoratori attivi e in quiescenza, tra coorti di pensionati e legioni di precari. Meglio ancora se anche l’assistenza, gli ammortizzatori sociali, l’Aspi, vengono prelevati dallo stesso montante globale.
In conclusione ci sembra di poter dire che questa finanziaria si muove lungo un sentiero estremamente fragile. Da una parte cerca di spostare il meno possibile per non laterare gli equilibri economici e finanziari, in particolare per quanto attiene alla protezione dei capitali (mobiliari e immobiliari) delle classi possidenti. Dall’altra conferma un poderoso sostegno alla struttura produttiva privata, abbassando i costi e i vincoli nell’utilizzo della forza lavoro, puntando ad un rilancio di competitività solo sul lato dell’offerta. Intanto prosegue una vigorosa politica di tagli alla spesa sociale, concentrati in particolare su sanità ed enti locali.
Date queste premesse, il mantenimento del vincolo di bilancio è più semplice in questa fase in cui i tassi d’interesse sono al minimo storico: peraltro con un debito pubblico salito al nuovo record di 2.192 miliardi di euro la massa di interesse pari a 80 miliardi l’anno rappresenta pure sempre un macigno incombente sul bilancio statale. Qualora lo scenario dovesse cambiare e la normalizzazione della politica monetaria riportasse i tassi verso l’alto, non mancherebbero nuove (e pesanti) fasi di crisi e di speculazione finanziaria. A quel punto tornerebbe al centro della scena una riforma delle pensioni di segno radicale, guidata dallo schema Boeri.
La crisi italiana è ben lungi dall’essere risolta: può essere vista come una tregua armata (se assegniamo ancora un ruolo vivo al conflitto), o un declino disarmante (se pensiamo ad una perdurante incapacità di resistere e di reagire). Il susseguirsi di lotte, anche estese, concluse in sconfitte sostanziali, non depone a favore di tesi ottimistiche.
Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che sarà sempre così: è più sensato lavorare per una graduale, costante, sotterranea, accumulazione di forza. I cicli della storia del movimento operaio dimostrano che la speranza non è mai infondata.
FINE
Sempre nell’ambito delle minori entrate, vale ancora la pena dedicare qualche riga alla detassazione dei premi aziendali. Introdotta nel 2009 come incentivo alla contrattazione aziendale degli incrementi di produttività, questa voce ha nel tempo eroso un piccolo pezzo della base imponibili, andando a costituire una sorta di zone franca, dove azienda e sindacati si accordano per pagare meno tasse e gratificare i lavoratori di aumenti netti più consistenti.
Dopo il mancato finanziamento nel 2015, la detassazione ritorna per il 2016 (400 milioni) e per gli anni successivi (600 milioni per 2017 e 2018). La soglia di reddito lordo per vederla applicata sale a 50.000 euro lordi annui, mentre la quantità di salario su cui strappare una tassa secca al 10% è di 2.000 euro (2.500 se contrattata in ambiti a gestione “paritetica” azienda-sindacato). C’è anche la possibilità di usufruirne come “welfare aziendale”, usando la gamma dei rimborsi assistenziali per spese dei figli e così via. Procede anche in questo modo una sorta di strisciante privatizzazione del welfare, con l’emergere di aziende private che mettono a disposizione delle parti “pacchetti di welfare” completi chiavi in mano, aggirando e smantellando un welfare pubblico sempre più sotto attacco.
Del resto l’attacco al welfare che negli anni precedenti si è concentrato sulla spesa pensionistica, prende ora di mira in modo speciale la spesa sanitaria. Nell’anno 2016, il Fondo Sanitario scende da 113,1 miliardi a 111 miliardi (-2,1 miliardi), un taglio che si aggiunge a quelli già previsti dalla precedente legge di stabilità (-2,352 miliardi a decorrere dal 2016). Con due sole manovre il Governo Renzi taglia 6,7 miliardi al finanziamento previsto nel Patto per la Salute 2014-2016, cancellandolo nei fatti. Complessivamente nel periodo 2016-2019 si prospetta una manovra per la sanità che sfiora i 20 miliardi di tagli, confermando il crollo dell’incidenza sul PIL della spesa sanitaria previsto dal DEF (dal 7% al 6,5%), il che relega il nostro Paese agli ultimi posti in Europa negli investimenti per la protezione sociale. Infatti dal 2017 al 2019, la previsione di tagli alle spese regionali verrà conseguita anche con interventi al finanziamento sanitario. Si impone così alle Regioni e alle P.A. un “contributo alla finanza pubblica” di 4 miliardi nel 2017 e di 5 miliardi per ciascuno degli anni 2018 e 2019, misura che prevede espliciti effetti sul finanziamento della sanità. La drammatica riduzione delle risorse pubbliche per garantire i livelli essenziali di assistenza e l’aumento del ticket, stanno spingendo verso la sanità privata a pagamento, senza contare che già oggi milioni di cittadini rinunciano alle cure per ragioni economiche e che in alcune regioni l’accesso alle prestazioni comprese nei LEA non è garantito.
Non diversa è la situazione per quanto riguarda il contrasto alla povertà: a fronte di un contesto che vede 6 milioni di poveri assoluti e altri 10 milioni di poveri relativi, lo stanziamento del governo per il 2016 si limita a 600 milioni di euro, mentre nei due anni successivi dovrebbero essere impiegati 1 miliardo di euro l’anno. Si tratta di interventi a tempo, non inseriti in un piano strutturale che garantisca l’universalità dell’assistenza a chiunque abbia i requisiti per accedere al Fondo di nuova istituzione: i nuclei famigliari in condizione di indigenza sembrano con tutta evidenza destinati a salire, se pubblicamente si ammette che un quarto delle famiglie è a rischio povertà/esclusione.
Del tutto inadeguate sono poi le risorse destinate alla ripresa della contrattazione nel pubblico impiego, dopo 7 anni di blocco. I 300 milioni l’anno destinati allo scopo rappresentano un aumento lordo potenziale di 12-13 euro al mese per i lavoratori dipendenti da amministrazioni con spesa centralizzata (1.300.000) e per quelli appartenenti alle forze armate (500.000), mentre nulla è previsto per gli addetti dipendenti di altri enti ed amministrazioni (1.200.000). resta in piedi il blocco dei turn-over, mentre ha ben scarso significato l’assunzione di 1500 “eccellenze” nel campo dell’università e della ricerca, quando si sa che le assunzioni sono bloccate dal 2007, i docenti sono stati ridotti del 22%, i precari del 97% e le immatricolazioni sono passate da 340 mila nel 2003/04 a 260 mila nel 2013/14. Il piano straordinario di reclutamento dei ricercatori, chiesto dalla Conferenza dei Rettori e dal Consiglio Universitario Nazionale, avrebbe bisogno di almeno 10.000 unità.
Una misura che è sfuggita ai più è l’ulteriore taglio delle risorse a CAF e patronati, come ringraziamento particolare del governo all’ “altra casta” che così bene si comporta nel mantenere l’ordine sociale nel sistema politico e nell’apparato produttivo: l’articolo 33 opera un taglio ai compensi dei CAF per 100 milioni, a decorrere dal 2016 (in seguito ridotti a 40 milioni per il 2016 e 70 per il 2017). Per i patronati si prevedeva invece il taglio di 48 milioni per l’esercizio 2016 (poi ridotti a 28) e la rideterminazione dell’aliquota di prelievo in modo da rendere strutturali i tagli agli istituti: una misura pesante che si aggiunge agli oltre 100 milioni di euro già tagliati negli ultimi 4 anni. Lo stesso vale anche per i CAF, che vengono da anni di blocco delle tariffe e cui l’aggiunta della certificazione ha comportato un aumento esponenziale dei premi assicurativi. Evidentemente il governo non intende esentare i sindacati, neanche quelli collaborativi e funzionali, dalla generale politica di taglio della spesa: la mediazione sociale serve fino a un certo punto in un modello dove è il mercato a dover far valere le sue leggi.
Un’indifferenza sociale che trova la sua piena espressione nelle politiche relative al mercato del lavoro. Dall’inizio della crisi sono andati persi in Italia circa 1.600.000 posti di lavoro, mentre altri 750.000 addetti possono essere considerati disoccupati “potenziali” per il peso della cassa integrazione e gli altri ammortizzatori sociali in deroga. In totale sono almeno 6/7 milioni le unità della forza lavoro attiva da considerare, a vario titolo, disoccupate/sottoccupate/scoraggiate. Il problema è particolarmente grave per le fasce giovanili della popolazione: la disoccupazione giovanile è destinata a restare, nelle stesse ammissioni del governo, al di sopra del 40% fino al 2019, mentre la disoccupazione ufficiale non scenderà sotto il 10% entro quella data.
Nonostante l’impianto liberista del mercato del lavoro costruito con il Jobs Act, si prevede una crescita timidissima dell’occupazione nel triennio: dallo 0,10% nel 2015 allo 0,7% del 2017. Nessun progetto concreto per assorbire l’enorme massa di giovani privi di reddito e di futuro.
Del resto sono impercettibili gli interventi previsti per ridare un minimo di dinamicità al mercato del lavoro. Gli effetti perversi della riforma Fornero non sono stati minimamente corretti: nonostante un dibattito molto vivace in proposito ed una proposta articolata messa a punto dall’INPS presieduta da Tito Boeri (peraltro molto pericolosa), nient’altro che chiacchiere è emerso dal dibattito estivo. L’unico strumento efficace sarebbe infatti la reintroduzione della flessibilità in uscita per i lavoratori prossimi alla pensione, misura che sarebbe gradita alle imprese e aprirebbe qualche spiraglio alla ripresa del turn-over in favore dei giovani inoccupati. Il dibattito si è però scontrato con il vincolo di bilancio e i conti dell’INPS (cui si sono addossate tutte le magagne del sistema previdenziale e assistenziale, minandone l’equilibrio), per trasformarsi in un esercizio accademico mirato a ridurre ulteriormente le prestazioni per i pensionati già in essere. Tutte le prestazioni “in deroga”, dall’opzione donna alla restituzione di un po’ di tasse ai pensionati poveri sotto i 15.000 euro, vengono infatti affrontate con la logica dell’ “autofinanziamento”, per cui le risorse vanno trovate dentro il sistema stesso, ridistribuendo internamente. Così è anche per la sperimentazione dell’istituto del “pensionamento attivo”, la possibilità cioè per chi matura i requisiti per la pensione di vecchiaia entro il 31.12.2018 di andare a part-time senza perdere i contributi (una misura non vincolata all’assunzione di giovani, che incentiva solo il risparmio per le imprese).
La stessa proposta di Boeri, che il governo ha per ora scelto di ignorare, prevede un reddito minimo da riconoscere ai 55enni privi di lavoro e di reddito, finanziato però dal taglio delle pensioni di chi supera i 32.000 euro di reddito familiare totale. La logica che ispira il presidente dell’Inps è peraltro coerente con la sua storia intellettuale: da sempre Boeri sostiene la necessità di mettere in sicurezza il sistema previdenziale imponendo il contributivo per tutti, cioè applicando il metodo attuariale privato che restituisce ai pensionati quello che hanno accumulato durante il lavoro (la pensione come frutto dell’astinenza). È l’attacco finale contro il sistema retributivo e l’ispirazione solidale della previdenza italiana, sferrato con l’argomento mistificatorio di una maggiore equità che corregga gli squilibri dovuti al trattamento riservato alle categorie che avrebbero “contribuito poco” e che adesso dilapiderebbero il patrimonio destinato alle nuove generazioni povere e precarie. Per tenere indenni stato e capitali privati, occorre far s’ che il sistema previdenziale sia affare interno alla forza lavoro, che le risorse possano solo essere ridistribuite dentro la stessa compagine, formata da lavoratori attivi e in quiescenza, tra coorti di pensionati e legioni di precari. Meglio ancora se anche l’assistenza, gli ammortizzatori sociali, l’Aspi, vengono prelevati dallo stesso montante globale.
In conclusione ci sembra di poter dire che questa finanziaria si muove lungo un sentiero estremamente fragile. Da una parte cerca di spostare il meno possibile per non laterare gli equilibri economici e finanziari, in particolare per quanto attiene alla protezione dei capitali (mobiliari e immobiliari) delle classi possidenti. Dall’altra conferma un poderoso sostegno alla struttura produttiva privata, abbassando i costi e i vincoli nell’utilizzo della forza lavoro, puntando ad un rilancio di competitività solo sul lato dell’offerta. Intanto prosegue una vigorosa politica di tagli alla spesa sociale, concentrati in particolare su sanità ed enti locali.
Date queste premesse, il mantenimento del vincolo di bilancio è più semplice in questa fase in cui i tassi d’interesse sono al minimo storico: peraltro con un debito pubblico salito al nuovo record di 2.192 miliardi di euro la massa di interesse pari a 80 miliardi l’anno rappresenta pure sempre un macigno incombente sul bilancio statale. Qualora lo scenario dovesse cambiare e la normalizzazione della politica monetaria riportasse i tassi verso l’alto, non mancherebbero nuove (e pesanti) fasi di crisi e di speculazione finanziaria. A quel punto tornerebbe al centro della scena una riforma delle pensioni di segno radicale, guidata dallo schema Boeri.
La crisi italiana è ben lungi dall’essere risolta: può essere vista come una tregua armata (se assegniamo ancora un ruolo vivo al conflitto), o un declino disarmante (se pensiamo ad una perdurante incapacità di resistere e di reagire). Il susseguirsi di lotte, anche estese, concluse in sconfitte sostanziali, non depone a favore di tesi ottimistiche.
Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che sarà sempre così: è più sensato lavorare per una graduale, costante, sotterranea, accumulazione di forza. I cicli della storia del movimento operaio dimostrano che la speranza non è mai infondata.
FINE
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