Khalida che lotta per le spose bambine

La giovane Khalida Brohi, 25 anni, aiuta le donne nelle zone più remote del Pakistan. Ad opporsi al delitto d'onore e ai matrimoni combinati. E a conquistare l'indipendenza economica imparando un lavoro.

«Mia madre aveva nove anni quando fu data in sposa e 13 quando partorì il primo figlio». Khalida Brohi ha 25 anni ma il suo racconto sembra arrivare da un’altra epoca. O meglio: da più epoche contemporaneamente. Sul suo blog  appare velata ma con la videocamera sugli occhiali. La sua organizzazione no profit, Sughar Empowerment Society, fondata nel 2009, si occupa delle donne nelle zone rurali più remote del Pakistan, in particolare in Balochistan e Sindh, nell’Est. Lei fa la spola tra quei villaggi, il Media Lab del Mit di Boston, le conferenze in giro per il mondo, le associazioni come Girls Fight Back!.

Sughar ha aperto una serie di centri: in sei mesi insegnano alle donne come migliorare le tecniche tradizionali di ricamo e a leggere e scrivere, almeno le basi. Ma soprattutto a diventare piccole imprenditrici. «Cerchiamo di convincerle che possono prendere decisioni, rendersi padrone della loro vita, partecipare a quella della comunità», racconta Khalida. 

Per questo il settimanale statunitense “Newsweek” l’ha inserita tra le cento giovani donne che contano nel suo Paese. Non è sposata e viaggia moltissimo: il 12 settembre sarà anche in Italia, come ospite del Pilosio Building Peace Award. Tra i suoi sostenitori ci sono anche Oprah Winfrey, Christiane Amanpour e Bill Clinton.

«Mio padre ha fatto il giornalista. Abbiamo traslocato spesso, fino ad arrivare a Hyderabad, dove sono andata a scuola con mio fratello», racconta: «Ma la nostra casa è sempre il villaggio nel Balochistan. Tutte le vacanze le abbiamo passate lì, nel grande “haveli” dove vivono zii e cugini. Mi rivedo bambina su un bus, per tornare dalla città al villaggio: ci volevano 11 ore. Mia madre non è mai andata a scuola. È stato mio padre a insegnarle a leggere e scrivere dopo il matrimonio. Lei ha preteso che tutti i suoi figli studiassero».

Ha avuto otto figli la madre di Khalida: è stata ambiziosa per tutti. «Non semplicemente perché seguissimo le nostre vocazioni», spiega Khalida, «ma perché contribuissimo a migliorare le sorti del nostro Paese. Ognuno di noi ha scelto un campo diverso: nell’imprenditoria sociale, nel business, nelle arti, nel cinema, in giurisprudenza, in medicina».

La voglia di emergere, in realtà, l’hanno ereditata dal padre. «Era figlio di un contadino. Voleva essere qualcos’altro, fin da bambino. Era ancora adolescente quando dovette sposare mia madre. Voleva studiare, benché la sua famiglia fosse povera, ha lottato per andare a scuola. Ma, prima di terminare i suoi studi, è tornato al villaggio. E mia madre, benché vivesse in un contesto così patriarcale, gli ha chiesto di emigrare in città. Solo così avremmo potuto studiare».

  • CONTRO LE NOZZE TRA BAMBINI
Khalida racconta la vita di suo padre con emozione. «Ha rinunciato al sogno di diventare un poeta. Quando oggi ci sediamo tutti insieme, ci racconta la sua infanzia. Sembrano secoli fa. Ma ha solo 44 anni». Khalida è orgogliosa di lui: ha fatto studiare le femmine «in un Paese in cui allevare una figlia è la sfida più difficile. Oggi è il mio migliore amico. Non siamo sempre d’accordo, ma anche quando mi disapprova ritrovo in lui il sostegno di un ribelle nato».

Delle battaglie delle donne occidentali, Khalida confessa di sapere poco: «Però tutto ciò che ho sentito a proposito mi ispira ogni giorno». Ha preso il suo bachelor in scienze umanistiche all’Università di Karachi e ha riflettuto sulla schizofrenia di un Paese, il Pakistan, dove in teoria le donne possono diventare premier ma in cui il cosiddetto “delitto d’onore” è un cancro.

Qui è “disonorata” anche una donna che si sceglie un marito e non si attiene alle imposizioni familiari. «È uno dei nostri maggiori problemi», spiega Khalida. «Non è incoraggiato dalla legge, né dalla religione o da alcun credo: è solo una forma di controllo che gli uomini esercitano sulle donne nel nome della tradizione. La soluzione sta nell’educazione. Io credo che esistano tradizioni bellissime e che siano queste tradizioni, questi colori, a rendere il mondo così vario. Credo che vadano difese. Vengo da una tribù in cui riti e tradizioni costituiscono gran parte della cultura. Per esempio, i matrimoni durano giorni: si narrano storie, si danza, si fa teatro “interattivo”. Sono rituali che tengono insieme le famiglie, nel rito e nel divertimento. Ma accanto a queste tradizioni ci sono quelle che incoraggiano la segregazione delle donne e la violenza. Lo scopo della mia vita è sradicarle. Noi di Sughar cerchiamo di salvare la musica, la lingua, le arti del ricamo e al tempo stesso di combattere i matrimoni combinati, le nozze tra bambini, i delitti d’onore». 

Khalida ha scelto di indossare i coloratissimi abiti tradizionali pakistani e non ha mai smesso di parlare la lingua del suo clan, ma sa bene come si esce dal sottosviluppo: «Si risolverebbero enormi problemi se si offrissero incentivi alle donne per lavorare. La loro indipendenza economica è la chiave del progresso. La Sughar Empowerment Society spinge le donne a provvedere a se stesse, ad assumere un ruolo guida non solo nelle loro comunità e in famiglia, ma nel paese». In questo non vede differenze con l’India: «Ovunque affrontiamo problemi simili».

  • PICCOLE AZIENDE AL FEMMINILE
Perché le “sue” donne possano davvero affrontare il mondo da sole, Sughar ha creato il Rural Fashion Brand: il ricamo dovrebbe così trasformarsi in un ramo industriale e produrre profitto. Viste le condizioni dell’industria tessile in Pakistan, India e Bangladesh, parrebbe un’utopia, ma è il modello di sviluppo su cui puntano molti economisti, da Vandana Shiva a Muhammad Yunus. «Distribuiamo anche i prodotti: abbiamo i nostri centri di vendita, giriamo per fiere e mostre in tutto il Pakistan. Dopo il corso diamo a ogni donna un piccolo prestito perché avvii una sua attività». Una goccia nell’oceano? Il Pakistan è ricco di iniziative del genere che si scontrano con una cultura ferocemente misogina. Eppure per due volte ha avuto un premier donna, Benazir Bhutto, che fu uccisa il 27 dicembre 2007. Oggi, però, il suo simbolo è Malala Yousufzay, scampata per miracolo a chi tentò di ucciderla perché voleva andare a scuola e dava l’esempio. L’effetto, va detto, è stato l’opposto. Non si lasciano scoraggiare facilmente queste “ribelli” velate.

«Io a 16 anni ho perso una delle mie più care amiche: uccisa nel nome “dell’onore”», racconta Khalida. «Secondo il mio villaggio era colpevole: voleva scegliersi da sola il marito, contro il parere della famiglia. All’epoca sognavo di diventare dottore. La sua morte è stata la scoperta dell’orrore. Ho perso interesse per tutto: volevo solo battermi contro questa piaga. Così ho deciso di dedicarmi ai diritti delle donne».
Gli inizi sono stati difficili. Nel 2009, a 20 anni, la fondazione di Sughar, che vuol dire “donna preparata e consapevole”: «Mi accorsi che la forza delle tradizioni è nel fatto che le donne le accettano come un destino inesorabile, convinte che il silenzio sia l’unica opzione loro concessa». Oggi lavorano per Sughar 18 persone a tempo pieno, assistite da sei volontari e da sostenitori e finanziatori sparsi per il mondo. «Ogni estate accogliamo stagisti», aggiunge Khalida. Quando tutto le appare più faticoso, Khalida si fa forte del fatto che ovunque nel mondo molte società sono emerse dal buio. «Sono certa che un giorno anche le donne pakistane avranno libertà e benessere. Il primo obiettivo è raggiungerne almeno un milione. Allora saprò di aver fatto davvero qualcosa per il mio Paese»







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