Una strategia esotica per domare il cancro
Nei
tumori, le cellule e una sostanza densa chiamata “matrice” possono comprimere i
vasi sanguigni e impedire l’ingresso dei farmaci. I ricercatori però potrebbero
aver scoperto una nuova strategia con cui aprire i vasi sanguigni e
ripristinare l’efficacia delle terapie.
Sono
quarant’anni che combatto il cancro da una prospettiva insolita. Di formazione
sono un ingegnere, e considero i tumori in parte come una sfida che riguarda la
fisica, quindi mi chiedo: in che modo le loro caratteristiche strutturali
promuovono la loro crescita impedendo ai farmaci antitumorali di funzionare
efficacemente?
Più
di vent’anni fa, con i miei collaboratori dell’epoca alla Carnegie Mellon
University, scoprimmo che anomalie strutturali dei vasi sanguigni tumorali
interferiscono con il trasporto mirato dei farmaci alle cellule maligne di una
massa tumorale. I vasi sanguigni dei tumori tendono ad essere eccessivamente
contorti e porosi, e la porosità causa una perdita di fluidi e di farmaci
trasportati nel sangue una volta che il sangue stesso entra nella massa
tumorale. A quel punto il fluido esercita una pressione verso l’esterno, che ne
provoca l’uscita dal tumore insieme alle molecole di farmaco, e lo porta a
invadere il tessuto circostante. In seguito dimostrammo anche che riducendo le
perdite vascolari era possibile limitare questa cosiddetta pressione
interstiziale del fluido e migliorare la distribuzione del farmaco nel tumore,
aumentando così le risposte a varie terapie pensate per attaccare le cellule
tumorali.
Più
di recente abbiamo dimostrato che la pressione del fluido non è l’unica forza
fisica problematica in azione. I tumori sono un miscuglio di cellule maligne e
sane, sangue e vasi sanguigni, il tutto inglobato in un materiale di natura
fibrosa chiamato matrice extracellulare.
I solidi, cioè matrice e cellule, possono comprimere linfa e vasi sanguigni.
Questa compressione, che fisici e ingegneri chiamano stress meccanico, potrebbe
ridurre o bloccare il flusso sanguigno diretto verso molte parti della massa
tumorale, e questo, a sua volta, potrebbe impedire il trasporto mirato del
farmaco e creare anche condizioni che favoriscono la progressione del tumore.
Allo stesso tempo la matrice, che nei tumori mostra una rigidità anomala e che
in alcune forme di cancro è più abbondante rispetto ad altre, può impedire
direttamente la diffusione di farmaci anticancro attraverso la massa tumorale.
Conoscendo
i ruoli preoccupanti svolti dalla matrice tumorale, ultimamente con i miei
colleghi abbiamo cercato il modo di ridurla. E alla fine abbiamo trovato un
approccio che ci soddisfa, anche perché è basato su una classe di farmaci che
già sappiamo essere sicuri e ampiamente prescritti per l’ipertensione.
Attualmente sono in corso studi sull’uomo per testare questo trattamento in una
forma di cancro al pancreas che è fra i tumori più ricchi di matrice e fra i
più difficili da curare.
Certo,
non possiamo promettere che farmaci in grado di ridurre la matrice si
dimostreranno rivoluzionari. Il cancro in realtà è tante malattie diverse,
tutte molto subdole. Ma se i farmaci funzioneranno come speriamo potrebbero
diventare un nuovo, potente alleato nella lotta per prolungare la vita di
persone colpite da tumori che troppo spesso resistono all’eliminazione.
- · Sotto la cappa
Ho
iniziato a pensare a come interferire con la matrice dopo aver capito che la
compressione di vasi sanguigni e vasi linfatici nei tumori causa un insieme
sorprendente di effetti problematici. In genere, i vasi linfatici rimuovono
l’eccesso di fluidi dai tumori e da altri tessuti. Quando i vasi linfatici di
una massa tumorale vengono compressi e ostruiti non possono più drenare il
liquido che esce dai vasi sanguigni tumorali, e la pressione del fluido
aumenta. Nel frattempo la pressione riduce la capacità, già compromessa, dei
vasi sanguigni di far circolare il sangue attraverso la massa maligna (e quindi
anche ossigeno, cellule immunitarie che aggrediscono il tumore e farmaci
anticancro) e lascia molte zone a corto di ossigeno.
Questa
carenza di ossigeno, o ipossia, potrebbe sembrare una cosa positiva, bloccando
la capacità di crescita del tumore. In realtà però può essere nefasta. La
carenza di ossigeno può stimolare cellule maligne e normali a produrre proteine
che sopprimono l’attività delle cellule immunitarie che combattono il cancro.
Una di queste proteine, il fattore di crescita dell’endotelio vascolare, o
VEGF, incrementa anche le perdite da parte dei vasi sanguigni, riducendo
ulteriormente il flusso di sangue nei tumori e aumentando la pressione del
fluido. L’ipossia, inoltre, trasforma alcune cellule del sistema immunitario da
nemici a complici del tumore.
Ma
non è tutto. L’ipossia favorisce la sopravvivenza di un maggior numero di
cellule maligne (quelle più abili a invadere i tessuti e a diffondersi)
rispetto alle meno maligne, perché le cellule meno pericolose tendono a
suicidarsi quando l’ossigeno scarseggia. Quel che è peggio, una carenza di
ossigeno può aumentare la tendenza all’invasività delle cellule tumorali
inducendole, per esempio, a produrre proteine che le aiutano ad allontanarsi
dalla massa originaria. E la scarsità di ossigeno pregiudica l’azione di molti
farmaci anticancro.
La
matrice causa problemi anche senza coinvolgere la privazione di ossigeno e la
ridotta diffusione di farmaci. Con i miei colleghi abbiamo scoperto che la
compressione meccanica può riprogrammare alcune cellule tumorali trasformandole
in “leader” che sostanzialmente iniziano a dirigersi verso i tessuti adiacenti
inducendo altre cellule a seguirle. Inoltre, in un circolo vizioso, tanto la
compressione quanto l’ipossia possono aumentare l’attività di cellule dedicate
alla produzione di matrice, come i fibroblasti, e possono stimolare certe
cellule tumorali a produrre componenti della matrice anche se le versioni non
maligne di queste cellule non partecipano alla produzione di matrice.
Il
mio gruppo aveva capito le conseguenze dell’ipossia ancora prima di iniziare a
lavorare sulla matrice, e trovare il modo di ridurla era diventata una nostra
priorità. Circa 13 anni fa avevamo proposto che “normalizzare” i vasi
sanguigni, cioè renderli meno contorti e meno permeabili, avrebbe aumentato la
perfusione sanguigna attraverso il tumore e ridotto la pressione del fluido,
riducendo così l’ipossia e i suoi effetti e facilitando il trasporto di farmaci
e di cellule immunitarie.
Ora
abbiamo prove convincenti a sostegno di questa ipotesi negli animali e
nell’uomo. Abbiamo mostrato che il ripristino di un certo grado di normalità
nei vasi sanguigni, che può essere ottenuto con sostanze che inibiscono la
formazione di nuovi vasi sanguigni (farmaci antiangiogenici), è accompagnato da
un incremento di flusso sanguigno e diffusione di ossigeno nei tumori celebrali
e può aumentare la sopravvivenza di qualche paziente. Questo meccanismo spiega
anche il tasso di sopravvivenza più elevato osservato in pazienti con tumore a
colon, polmone e reni che abbiano ricevuto il farmaco antiangiogenico
Bevacizumab insieme a farmaci chemioterapici (che uccidono le cellule tumorali
in rapida divisione) o immunoterapici (che aumentano la risposta immunitaria
dell’organismo contro i tumori).
I
ricercatori continuano a ottimizzare l’approccio, ma da solo non sarà mai
sufficiente, perché non è la pressione del fluido a comprimere i vasi sanguigni
e linfatici nei tumori: i responsabili sono matrice e cellule. Quando le
pressione del fluido aumenta attorno ai vasi porosi, il fluido fluisce indietro
attraverso i pori invece di far collassare i vasi. E i farmaci antiangiogenici
non possono aprire vasi ostruiti da matrice e cellule. Qui entra in gioco il
nostro lavoro sulla riduzione della matrice e quindi dello stress meccanico da
compressione.
Prima
di cercare farmaci che potessero ridurre la matrice volevamo un’idea più
precisa delle differenze fra tumori diversi riguardo a quantità di materiale ed
entità dello stress esercitata dalle componenti solide. Abbiamo scoperto che i tumori
sono eterogenei rispetto a questi due parametri, anche se l’esame microscopico
su masse tumorali umane ha mostrato che la maggior parte conteneva vasi
collassati.
L’entità
del collasso dipende anche dallo stadio in cui si trova il tumore e dove si trova.
Confinato in uno spazio, per esempio, aumenterà lo stress da compressione e il
numero di vasi parzialmente o totalmente collassati. Anche il tipo di tumore ha
un ruolo. Per esempio, la forma più comune di tumore pancreatico
(l’adenocarcinoma duttale) ha in genere un numero relativamente piccolo di
cellule tumorali, che costituiscono meno del 5 per cento della massa; inoltre
contiene una gran quantità di matrice e fibroblasti. Altri tumori, come il
medulloblastoma, il tumore cerebrale più comune in età pediatrica, hanno meno
matrice. Ulteriori ricerche hanno dimostrato che i tumori con un elevato
rapporto di matrice e fibroblasti rispetto alle cellule tumorali, chiamati
tumori desmoplastici, rispondono meno ai farmaci. Questo suggerisce che,
riducendo la quantità di matrice in queste masse cancerose, i farmaci
dovrebbero avere più probabilità di raggiungere i bersagli e, di conseguenza,
di funzionare meglio del solito.
- · Primi test
I
tentativi iniziali del mio gruppo di trovare molecole in grado di ridurre la
matrice ai minimi termini sono stati aiutati da una scoperta casuale. La
matrice è fatta di fibre proteiche (principalmente formate da collagene) e
composti simili a gel, come l’acido ialuronico. Un tempo i ricercatori
ipotizzavano per le molecole simili a gel un ruolo di interferenza più
importante rispetto a quello del collagene nella diffusione dei farmaci in un
tumore.
Nel
2000 invece abbiamo scoperto che è più importante la rigidità del tessuto, che
dipende dalla quantità di collagene contenuto. Abbiamo anche scoperto che la
rottura delle fibre di collagene con un enzima specifico, chiamato appunto
collagenasi, aumentava considerevolmente la diffusione di una particella di 150
nanometri ideata per sostituire un farmaco, addirittura nei tumori che dimostravano
la resistenza più elevata alla penetrazione. Abbiamo usato particelle di quelle
dimensioni usandole al posto di farmaci di dimensioni nanometriche, che sempre
più spesso vengono studiati come possibili killer di specifiche cellule
tumorali, ma che finora hanno ottenuto solo un modesto successo.
In
seguito a questa scoperta abbiamo dimostrato che alcuni tumori dei topi
diminuivano maggiormente di volume con l’iniezione nella massa tumorale di
collagenasi e particelle virali di 150 nanometri ideate per uccidere cellule
cancerose rispetto all’iniezione delle sole particelle virali. Per quanto fosse
un risultato interessante, sapevamo che l’uso di un enzima capace di degradare il
collagene in tutto l’organismo poteva essere problematico nell’uomo: il
collagene sostiene ossa e tessuti. Avevamo bisogno di un farmaco più sicuro che
funzionasse nei tumori senza produrre effetti diffusi. Ma quale?
Abbiamo
subito considerato un ormone chiamato relaxina, che le donne producono durante
la gravidanza. La relaxina inibisce la sintesi del collagene e ne aumenta la
degradazione, tanto che le future madri la producono in grande quantità senza
effetti collaterali. Quindi ci siamo domandati se poteva essere usata per
ridurre il collagene nei tumori.
Nel
2002 abbiamo trattato topi malati di tumore con relaxina per due settimane.
Questa molecola ha riorganizzato il collagene rendendolo più poroso e ha
aumentato la dispersione attraverso i tumori di grandi molecole che usavamo
come sostituti di farmaci. Anche altri ricercatori hanno confermato le nostre
scoperte con tumori diversi. A quel punto però abbiamo saputo di esperimenti in
cui la relaxina aumentava la progressione di alcuni tumori, per esempio quelli
prostatici. Data la disparità di risultati e il rischio che ne deriva abbiamo
capito che non avremmo potuto testare questo farmaco in terapie destinate
all’uomo.
- · Finalmente un colpo di fortuna
Delusi,
abbiamo cercato altre molecole attive e ci siamo concentrati sull’attacco a una
sostanza chiave coinvolta nella sintesi del collagene. S tratta di una proteina
chiamata “fattore di crescita trasformante beta”. Abbiamo trovato un modo per
ottenere quello che volevamo quando abbiamo capito che una classe di farmaci
usati per trattare l’ipertensione non solo riduceva la pressione del sangue ma,
effetto per noi molto utile, inibiva anche l’attività del fattore di crescita.
Inoltre questi farmaci, ampiamente prescritti e noti come bloccanti
dell’angiotensina II, ostacolavano la funzione di una seconda molecola
coinvolta nella stabilizzazione del collagene. Sapevamo che un certo numero di
bloccanti dell’angiotensina, incluso un farmaco chiamato Losartan, riducono la
concentrazione di forme differenti di collagene in modelli animali che
producono eccessive quantità di matrice extracellulare, e possono ridurre un
simile eccesso nei reni e nel cuore di pazienti con ipertensione. Tuttavia non
avevamo trovato nessuna ricerca pubblicata su riviste scientifiche che
esaminasse gli effetti di questi farmaci sui livelli di collagene o sullo
stress da compressione nei tumori.
Per
capire se i bloccanti dell’angiotensina possono ridurre la quantità di matrice
nei tumori, migliorando la diffusione dei farmaci che aggrediscono le cellule
maligne, abbiamo trattato per due settimane con Losartan topi con quattro
diversi tipi di tumore ricchi di matrice: adenocarcinoma pancreatico duttale,
tumore della mammella, melanoma (un tumore della pelle) e sarcoma (un tumore
che emerge nel tessuto connettivo). Abbiamo
notato due effetti incoraggianti. Il collagene nei tumori diminuiva, e le
particelle da 100 nanometri usate come test per farmaci contro le cellule
tumorali si diffondevano più del solito nella massa maligna. Abbiamo concluso
che la migliore penetrazione delle particelle usate come test avveniva grazie
alla riduzione del contenuto in collagene. Studi successivi sui roditori
pubblicati nel 2011 hanno dato gli stessi risultati con nanofarmaci: il Doxil
(circa 100 nanometri di diametro) approvato dalla Food and Drug Administration
e particelle virali 8circa 150 nanometri) che uccidono le cellule tumorali.
Durante le nostre ricerche abbiamo anche scoperto che tanto più aumentava la
dose di Losartan tanto più diminuiva il collagene.
Questa dipendenza dalla dose
è un buon segnale del fatto che il farmaco provoca proprio l’effetto osservato.
La scoperta implicava anche che dosi di Losartan maggiori di quelle testate in
precedenza avrebbero potuto ridurre il collagene al punto che i vasi sanguigni
di tumori ricchi in matrice si sarebbero aperti abbastanza da permettere il
passaggio ai farmaci antitumorali e avrebbero raggiunto anche aree della massa
tumorale che in precedenza non ricevevano sangue. In effetti nei topi una dose
doppia di farmaco riduceva il collagene nei tumori mammari e pancreatici ricchi
di matrice, apriva i vasi sanguigni e migliorava il trasporto e l’efficacia non
soltanto dei nanofarmaci, ma anche dei chemioterapici standard usati
normalmente per curare queste forme di tumore.
In
seguito ci siamo chiesti se dosi sufficientemente elevate di Losartan o di
altri anti-ipertensivi avrebbero aumentato l’efficacia delle chemioterapie
convenzionali e delle nanomedicine in esseri umani. Ancora non abbiamo una
risposta definitiva, ma abbiamo buone ragioni per essere ottimisti. Revisioni di
ricerche che erano state effettuate in passato e avevano coinvolto persone
malate di cancro e ipertese, dunque pazienti che avevano ricevuto una terapia
anticancro e farmaci anti-ipertensivi, hanno suggerito che alcune molecole
anti-ipertensione possono migliorare in qualche modo i risultati. Per esempio
un’analisi effettuata su ricerche precedenti ha indicato che in combinazione
con Gemcitabina, un noto antitumorale, i bloccanti dell’angiotensina o di
enzimi correlati hanno aumentato di circa sei mesi la sopravvivenza generale in
pazienti con adenocarcinoma pancreatico duttale, rispetto alla sopravvivenza
che si otteneva con il solo chemioterapico. Ovviamente gli studi retrospettivi
hanno i loro limiti, tuttavia i dati ottenuti su pazienti curati anche per
ipertensione sono coerenti con quello che abbiamo scoperto nei topi, e
forniscono una base scientifica con cui testare i bloccanti dell’angiotensina
come possibili agenti antimatrice anche nell’uomo.
Di
conseguenza un gruppo di ricercatori del Massachusetts General Hospital ha
avviato un trial di Losartan con chemioterapia standard su pazienti con
adenocarcinoma pancreatico duttale, che mostra un tasso di sopravvivenza a
cinque anni inferiore al 6 per cento. (Io non sono coinvolto in questo trial).
I risultati potrebbero essere disponibili in un paio d’anni. In futuro, se
tutto andrà per il meglio, credo che miglioreremo la cura dei pazienti grazie a
una combinazione di terapie a base di farmaci che normalizzano i vasi sanguigni
(come i bloccanti del VEGF), che distruggono la matrice e uccidono
selettivamente le cellule tumorali.
Come
accade per la maggior parte dei farmaci, anche gli anti-ipertensivi hanno i
loro svantaggi. Per esempio non possono essere somministrati alle persone
affette da alcune patologie renali o a chi soffre di bassa pressione. Le dosi
devono essere attentamente controllate anche nel caso di pazienti con pressione
normale, per evitare gravi cali di pressione. Questi problemi potrebbero essere
affrontati andando alla ricerca di strategie con cui modificare gli agenti
bloccanti dell’angiotensina e facendo in modo che mantengano la capacità di
ridurre la quantità di matrice senza però abbassare anche la pressione
sanguigna. Con i miei colleghi inseguiamo proprio questo obiettivo. Tuttavia i
tumori tendono a sviluppare resistenza verso la maggior parte dei farmaci, e
ancora non sappiamo se svilupperanno resistenza al Losartan o ad altri
bloccanti dell’angiotensina.
- · Le alternative
Che
dire dei pazienti che non possono prendere farmaci anti-ipertensivi, o i cui
tumori non rispondono bene o in maniera continua a questi farmaci? Un altro
modo per aggredire la matrice potrebbe consistere nel colpire in maniera
specifica le molecole non fibrose di acido ialuronico che si trovano nei
tumori. L’acido ialuronico è abbondante in circa il 25 per cento dei tumori
umani, come l’adenocarcinoma pancreatico duttale, il tumore della mammella, del
colon e della prostata. Di recente abbiamo dimostrato che un enzima che scinde
l’acido ialuronico, una ialuronidasi, può ridurre lo stress meccanico nei
tumori che si sviluppano nei topi. Abbiamo anche dimostrato che il Losartan può
ridurre l’acido ialuronico nei tumori. Altri ricercatori hanno dimostrato che
una ialuronidasi può decomprimere i vasi sanguigni. Sulla base di studi più
recenti, attualmente è in fase di trial clinico per il tumore del pancreas una
formulazione dell’enzima chiamata PEGPH20. Noi e altri gruppi di ricerca
abbiamo anche ottenuto un certo successo in laboratorio con altri farmaci,
conosciuti per la loro parziale azione anche sulla matrice.
Per
perfezionare terapie che distruggano la matrice, i ricercatori devono trovare
il modo di misurarne la risposta ai diversi agenti testati. Le sostanze che
distruggono la matrice del tumore riducono effettivamente la compressione
meccanica? Quali sono le più efficaci? E ancora: l’entità della riduzione è
determinante per garantire il successo di farmaci antitumorali più tradizionali
usati in combinazione? Anche su questo fronte si stanno compiendo progressi. Un
nuovo metodo di indagine ottica, chiamato “microscopia a generazione di seconda
armonica”, dovrebbe aiutare i ricercatori a osservare e a misurare il collagene
nei tumori.
Inoltre
con i miei colleghi abbiamo trovato un modo relativamente semplice per misurare
lo stress da compressione in un tumore: quando un tumore viene sezionato in
due, le due metà si gonfiano spontaneamente. Misurare il rigonfiamento e
applicare formule matematiche messe a punto dal mio gruppo rivela la quantità
di stress a cui era sottoposto l’interno del tumore.
A
volte mi viene chiesto se la riduzione della matrice non potrebbe facilitare il
processo di metastatizzazione da parte delle cellule tumorali, cioè la capacità
delle cellule di spostarsi attraverso la matrice verso il sangue e i vasi
sanguigni, e quindi fuori in altri organi o in altri tessuti. Analogamente
molti si domandano se digerire la matrice o, in alternativa, aprire i vasi
sanguigni e incrementare il flusso ematico attraverso un tumore non potrebbe
favorire l’ingresso delle cellule tumorali nel flusso sanguigno, o promuovere
la crescita tumorale trasportando una maggior quantità di nutrienti fino alle
cellule tumorali, o entrambe le cose.
Questi
timori necessitano di ulteriori ricerche; tuttavia diverse osservazioni
suggeriscono che le terapie in grado di alleviare lo stress da compressione e
di normalizzare i vasi sanguigni non dovrebbero promuovere la crescita tumorale
e la metastasi. Perché? Da una parte è vero che i nutrienti dovrebbero
raggiungere le cellule tumorali, che sarebbero anche più libere di spostarsi;
dall’altra la perdita di ossigeno che promuove la progressione del tumore
pregiudica la risposta immunitaria e riduce l’efficacia di molte terapie
sarebbe ridotta. Inoltre, fuori dal tumore e nei vasi sanguigni normalizzati e
più aperti si diffonderebbero quantità maggiori di farmaci e un numero
potenzialmente maggiore di cellule immunitarie per contrastare qualsiasi
effetto favorevole al tumore da parte della terapia. Studi in corso su animali
e sull’uomo dimostreranno quale di questi effetti è più potente.
- · Seguire la logica
All’epoca
in cui io e i miei colleghi abbiamo considerato l’uso degli inibitori
dell’angiotensina per combattere il cancro, altri scienziati che avevamo
consultato ci avevano suggerito di non seguire questa linea di ricerca. Dato
che questi farmaci riducono la pressione del sangue, era il ragionamento,
avrebbero provocato una riduzione del flusso sanguigno tumorale, non un
aumento. Inoltre studi con l’angiotensina, che contrariamente ai bloccanti
dell’angiotensina fa aumentare la pressione del sangue, avevano osservato un
flusso sanguigno maggiore in molti esperimenti sui topi e sull’uomo. Quei
lavori, però, non consideravano gli effetti di compressione della matrice, e un
trial mirato a verificare l’efficacia della terapia a base di angiotensina per
la cura del cancro su pazienti umani era fallito. Alcuni anni dopo siamo
riusciti a spiegare il motivo di quel fallimento: il farmaco aumentava il
flusso del sangue solo temporaneamente, forse perché lo stress da compressione
chiudeva rapidamente i vasi sanguigni interessati.
Guardando
al futuro, dovremo capire meglio non solo la genetica e la biologia cellulare
alla base della formazione del tumore, ma anche considerare le conseguenze
delle forze fisiche che agiscono nei tumori. Dobbiamo sfruttare tutte queste
conoscenze per capire le leggi che regolano la progressione tumorale e scoprire
come fare per migliorare diagnosi e terapia del cancro.
I
tumori solidi usano forze fisiche per sopravvivere. È tempo di sfruttare la
nostra conoscenza della fisica per passare al contrattacco.
Autore:
R. K. Jain è Andrew Werk Cook
Professor di biologia dei tumori e direttore dell’Edwin L. Steele Laboratory
fot Tumor Biology al Dipartimento di radiologia oncologica del Massachusetts
General Hospital e della Harvard Medical School. È membro della National Academy
of Sciences, della National Academy of Engineering e dell’Institute of
Medicine, la sezione di medicina della National Academy of Sciences.
Fonte:
Le Scienze (versione italiana di
Scientific American) – Aprile 2014
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