NON AGIRE, PENSA!
Questo il
breve invito categorico del torrenziale ed ubiquo S. Žižek, che
citiamo non per generale prossimità di pensiero con la philostar
slovena, ma per correttezza di attribuzione dell’esortazione, che invece
condividiamo tanto da volerci scrivere su un articolo.
Questo invito altro non è che un
richiamo, un richiamo alla natura umana la quale ha la sua essenza (il
punto proprio che la differenzia dalle altre forme naturali) in questa
facoltà che potremmo chiamare “pensare al fare prima di farlo” o
autocoscienza.
L’ultima volta che la riflessione
filosofica si occupò dell’autocoscienza, in forma estesa, ovvero
nell’estensione della sua relazione col Mondo, fu più centocinquanta
anni fa, con G.W.F.Hegel. Questo coincise con un turning point della
vicenda filosofica occidentale, che da quel momento in poi, si inabissò
perdendo di vista questo argomento, il suo portatore (l’uomo interamente
inteso) ed il motivo per cui ne è portatore (la relazione col Mondo).
Perché accadde? Perché l’attività umana
di riflessione sul generale, divenne sempre più particolare e perché
cominciò anche a teorizzare di sé, il divieto alle formulazioni generali
ossia sistemiche, quasi che il contatto col Tutto potesse diventare
come il contatto con una antimateria che annichiliva la consistenza del
pensiero?
La nostra ipotesi è che si trattò di
un momentaneo fallimento adattivo tra la funzione pensante riflettente
che sommava, anzi sottraeva una forza ad una debolezza, e l’oggetto del
suo riflettere, il Mondo. Un mondo (il maiuscolo è per il concetto, il
minuscolo per l’oggetto in quanto tale) che, proprio a metà del XIX°
secolo, iniziò la scalata di una impennata di complessità senza alcun
precedente.
Se la complessità è, in prima istanza, la
quantità di cose e la quantità e qualità delle loro interrelazioni,
proprio nel XIX° secolo si andava producendo quell’inizio di massima
inflazione di complessità, che è l’essenza propria dei tempi che ci è
toccato in sorte di vivere. Tempi nei quali ci sentiamo smarriti,
proprio perché non li capiamo e non li capiamo proprio perché la
funzione riflettente (che poi è la filosofia) che dovrebbe comprenderli
(com-prendere, prendere assieme nella loro interezza) ha avuto quel
collasso adattivo che abbiamo posto in ipotetica tesi. Vediamo allora
più da vicino quali debolezze e quali forze si sono scontrate nella
vicenda filosofica, cominciando dalle forze.
Una forza ha agito nel pensiero, l’altra
nel Mondo. La forza del pensiero fu la scienza, la scienza che cominciò
ad influire sull’agire sul Mondo era la tecnica. La cosa origina dal XV°
secolo e quindi, differentemente da come viene in genere raccontata
anteponendo il pensiero (la scienza), all’azione (la tecnica), in realtà
successe l’esatto contrario. Così in un ambiente ancora
pre-scientifico, ad acerbe nozioni di medicina (alle prese con i
devastanti effetti delle epidemie), di chimica (ai tempi talmente
misteriose da esser ancora intrecciate con la filosofia, nell’alchimia) e
di meccanica empirica (il macchinismo del ‘400), seguì un prodotto
tecnico-ottico. Il che è anche una riconferma dell’antica parentela tra
“vedere” e conoscere. L’ottica aveva una ragion pratica e nell’ottica
stessa si può osservare, il sorgere di quella relazione intrecciata tra
una specie di pensiero (quello tecnico-scientifico) ed una specie di
agire (quello economico) che sarà poi la seconda forza, quella che
cominciò ad agire sul Mondo. Galileo era assai curioso di ciò che
Kepler, Brahe e Kopernik stavano facendo e si noti che i tre erano
tutti nord-europei che si avvalevano di quei nuovi prodigi dell’ottica
che venivano prodotti dall’artigianato olandese fiorente intorno al
porto di Amsterdam. Amsterdam era il punto dal quale originava l’allora
grande flotta della nascente potenza commerciale olandese, flotta che
girovagando per coste sconosciute, osservava col cannocchiale i
possibili approdi. Galileo si costruì il “suo” cannocchiale e lo rivolse
lì dove non doveva perché era lì dove c’era Dio. Ne nacque il famoso
problema del processo, della forzata abiura dell’evidenza, dei
“domiciliari”, ma anche la prima riflessione su ciò che si era riflesso
nelle lenti del cannocchiale. Nasceva così la scienza moderna. Poi
arrivò Newton che sta alla scienza occidentale come Platone sta alla
filosofia e da lì la vicenda scientifica si diffonde nel suo albero che
proprio nel XIX° secolo arriva ad una “esplosione di conoscenze”.
La seconda forza, quella dell’agire
pratico sul Mondo, fu l’economia moderna. Nata in Italia, dall’Italia
dovette presto migrare perché ancora infante, venne repressa dalle
condizioni culturali e politiche, imposta dalla Chiesa, ovvero dalla
istituzione della ragion pratica, della ragion pura religiosa. Quando
oggi ci si rallegra del fatto che il Papa si scagli con lucida ragione
contro i danni ed i misfatti del capitalismo, si deve ricordare che il
secondo è ciò che ha tolto la sovranità ordinativa del primo, ciò che
creò la transizione tra Modernità e Medioevo. Certe cose, “loro”, non le
dimenticano, essendo l’istituzione con la più lunga memoria storica al
mondo. Questo nuovo modo di stare al mondo, producendo e scambiando cose
e servizi, più o meno utili alla vita individuale e collettiva, non era
in sé, un modo nuovo. “Nuovo” era il ruolo che andava assumendo nella
vita sociale e politica delle varie comunità, nei casi francesi, inglesi
e spagnolo, organizzato in nazioni. Assunse infatti quel ruolo che
nell’epoca precedente, il Medioevo, era svolto dalla religione, il ruolo
di ordinatore, ordinatore di tutti gli altri principi
(politico-militare-culturale-sociale-religioso). La cosa avvenne proprio
ad Amsterdam (a Genova, Venezia, nella Lega dell’Hansa baltica) per la
prima volta ma quando passò da città a stati, da Amsterdam
all’Inghilterra, per la prima legge del bistratto materialismo
dialettico del povero Engels ovvero per il fatto che diverse quantità
generano nuovi stati qualitativi (poi divenuta, anche e non solo, la
legge dei “quanti” di Plank in fisica, la dinamica che porta i salti di
stato tra scienza normale e scienza rivoluzionaria in T. Kuhn e la legge
dell’evoluzione punteggiata nella paleontologia di S. J. Gould,
conosciuta nel senso comune anche come “goccia che fa traboccare il
vaso”), divenne un nuovo “sistema”. Quel sistema che impropriamente
chiamiamo “capitalismo”, impropriamente perché non è la sua regola
interna a generarne l’essenza, ma la posizione che assume nel sistema
generale del vivere umano associato. Quando Hegel dice che il vero e
l’intero dice che è l’intero umano associato che dovremmo guardare per
capire cosa portò una componente a scalzare il ruolo ordinativo della
precedente ed assumere la funzione di nuovo perno e guida dell’intero
sistema. La ragione di questa novità non proviene dall’interno del
principio ma dalla sua relazione con tutti gli altri e dalla relazione
che i sistemi umani nazionali cominciarono ad avere tra loro in Europa e
come Europa vs il mondo. Per questo motivo è molto improbabile che sia
un economista, oggi, a dirci cosa sta succedendo, perché dall’interno
del suo sistema egli vede solo ciò che lì dentro si riflette, non vede
ciò che da fuori, modifica il suo sistema, la causa o cause gli
rimangono ignote quali ignote erano le cause delle eclissi di sole per
le culture che guardavano il mondo con le lenti del mito, visto che
l’ottica scientifica non era ancora nata. Cause ignote portano a false
attribuzioni di causa e queste mantengono ignote le cause reali.
Ma torniamo al nostro turning point. La
forza pratica dell’agire economico ormai pervadeva la regolazione sia
sociale, sia politica dell’umano vivere associato del XIX° secolo.
Resistevano l’ Italia che era frantumata in costellazioni
post-medioevali mantenute in vita dallo Stato Pontificio come ultima
trincea resistente il nuovo modo di stare al mondo e resisteva la
Germania, similmente frazionata in una quarantina di stati debolmente
confederati, all’ombra di una potenza calante (l’Austria-Ungheria) ed
una nascente (la Prussia), che al riparo dal capitalismo
stato-nazionale, divenne culla dell’ultimo rinascimento filosofico
propriamente detto, l’Idealismo-romantico. Dopo, la ragion pratica del
nascente capitalismo tedesco, creò la moneta comune (Vereinstaler) e
poi un mercato comune (Zollverein). Poi capì che i sistemi non si fanno
partendo dalle monete e dai mercati e fecero lo stato - nazione tedesco,
un soggetto che non a caso gli altri europei avevano fatto di tutto
perché non si formasse. La forma, non stato-nazionale di Italia e
Germania ci dice quanto questa forma sia precondizione necessaria per la
piena forma di ciò che chiamiamo “capitalismo”. A dispetto infatti
della descrizione di sistema che ne danno i cantori (i liberali) e i
critici ufficiali (i marxisti), il sistema in oggetto è
politico-economico, la questione economica è necessaria ma non
sufficiente, la condizione sufficiente è quella politica. L’umano vivere
associato quindi, divenne sempre più ordinato dall’agire economico a
sua volta connesso con l’agire politico, mentre la comprensione del
mondo era affidata alla scienza. La filosofia capì sempre meno di
economia, di politica, di Mondo e rimase ammutolita ed impotente non
capendo l’Impero, non capendo le nuove stato-nazionalità, non capendo la
Prima guerra mondiale, lo shock degli anni ’30, la Seconda guerra
mondiale, si meravigliò e si autoaccusò in un momento di rara lucidità
riflessiva sul come era potuta accadere una cosa come Auschwitz
(Adorno), poi continuò a non capire i boom post-bellici e tutto ciò che
conseguì. Il pensiero occidentale si fratturò lungo lo stretto che
divide gli anglosassoni dai continentali. I primi a rincorrere la
scienza, i secondi ad interrogarsi sull’ombelico. La filosofia perse la
sua ragione, il vero (ipotetico), perché non più in grado di
com-prendere l’Intero.
A questa perdita dell’Intero diede un
grande contributo la speciazione scientifica, un sapere che si rese
competitivo ed assai più efficace di quello filosofico. Certo
intrecciato con la ragion pratica economica, ma dotato realmente, di
enormi capacità di comprensione ravvicinata delle cose che sono, della
loro “oggettività”. Questa vicinanza alle cose portava due effetti: il
primo era la sufficiente certezza, l’oggettivo (il certo, il vero); il
secondo al frazionamento del sapere le cose, un sapere che posto al
seguito di tanti e diversi oggetti ne rifletteva la molteplicità in un
sapere tanto e diverso, diviso in discipline sempre più ravvicinate
(specialismi) accumunate solo da un metodo (per altro non poi così
“unico” come si sostenne). Massima intensione, minima estensione. La
cosa poi mimava l’efficienza della divisione del lavoro che
razionalizzava la ragion economica e quindi si appoggiava anche
all’effetto “imitazione di ciò che funziona”.
Insomma, il modo di stare al mondo
politico-economico funzionava, il sapere il mondo non nel suo vago
intero, ma nel suo specifico molteplice concreto, funzionava. Funzionava
al punto da divenire paradigma della conoscenza, talmente attrattivo da
succhiare alla filosofia, come la stella più densa fa con quella meno
densa nei sistemi stellari binari, tutti i saperi non solo del mondo
naturale, ma anche di quello umano. Una lunga bava scintillante di
energia intellettuale, abbandonò la astratta vaghezza filosofica
attratta dalle magnetiche certezze della Scienza (qui, come concetto):
psicologia, sociologia, pedagogia, antropologia, archeologia, etnologia,
economia, politica, linguistica, informazione etc., divennero “scienze
umane”.
L’economia funzionava perché trasformava
la nuova complessità del mondo in utilità per lo standard di vita
occidentale, la politica funzionava perché garantiva all’economia le sue
condizioni di possibilità e le imponeva con il fattore militare al
mondo domandone la complessità. Funzionava la scienza non perché
aiutasse a domare l’Intero complesso, tutt’altro, ma perché ne
comprendeva le parti, in consonanza con i successi politico-economici
che ordinavano il sistema. Un Intero che era sistema che funzionava e
quindi non necessitava di alcuna riflessione.
Difficile districarsi nella relazione
causa effetto tra queste due forze crescenti, la scienza-tecnica e la
politica-economia e la descrescenza di pregnanza dello sguardo
filosofico, capire chi o cosa causò cosa. Sta il fatto che la vicenda
filosofica, culminò sincronicamente a queste ascensioni di potenza
cognitiva e realizzativa, nell’ultima sfarzosa festa di corte dell’
aristocrazia del pensiero, come i Romanov fecero alla vigilia della
Rivoluzione russa, ignari. Il dipinto di questa “ultima festa prima
della fine”, fine non già della Storia ma della Metafisica classica, fu
l’Enciclopedia delle Scienze Filosofiche di Hegel. Lì dove si compie
l’ultimo tentativo sistemico di cercar di capire cos’è Io (la coscienza,
l’autocoscienza), cos’è Mondo (la Storia, la Natura, il Diritto, la
Religione, l’Arte etc.) e quali sono le loro interrelazioni (lo Spirito,
per giunta “Assoluto”). Il tutto sovraordinato da una legge dell’io
pensante e del Mondo (lo Spirito assoluto) che si riflette nel suo
pensare che si diceva essere una “dialettica”, in versione trinitaria.
La vicenda filosofica arrivò a capire la natura del problema ma non capì
il problema e pagò il fallimento che ovviamente è nella storia del
pensiero precedente ad Hegel e di cui Hegel fu solo il prodotto maturo,
un prodotto che intuì la forma del problema principale ma che fallì del
tutto la sua com-prensione. Purtroppo, non solo ne fallì la
comprensione, ma creando un assai presuntuoso sistema chiuso,
omnicomprensivo ed omniesplicativo, creò una sorta di crisi di rigetto
olistico non solo dei contenuti, ma anche della forma e del metodo. Ne
seguì l’invocazione al fare collettivo (Marx) ma senza ricette per le
osterie dell’avvenire, cosa che poi venne scontata nel fallimento
di coloro che provarono ad aprire quel tipo di osterie (un caso di fede
nella razionalità di una Storia ordinata dalla meccanica dialettica,
fede del tutto malriposta come verifichiamo da
centocinquant’anni) ; alla potenza individuale (Nietzsche) ribelle ad
ogni religione, soprattutto metafisica; al comprendersi delfico
(“conosci te stesso” attualizzato da Freud nella vertiginosa vista della
voragini interne all’Io) e tutta una serie di pensieri in ordine
sparso, frammenti di riflessione, diaspora dell’autocoscienza
frantumata, dall’esistenza al linguaggio, dalla logica
all’interpretazione. Come disse Esenin al termine del suo pre-suicidio,
reso poesia nell’ Uomo nero “…sono solo e lo specchio infranto”.
E il mondo?
Il mondo occidentale visse convinto di
essere la regia dell’Esistente almeno fino a gli anni ’60. Poi si
accorse non certo con profonda autocoscienza, vista la cecità
provvisoria della sua facoltà di riflessione, del venire a trovarsi
sempre più piccolo in un globale caotico ed imperiosamente crescente.
Reagì come reagì il papato della Controriforma, non riflettendo il
cambiamento su se stesso, ma continuando a fare in ogni modo possibile,
sempre di più, sempre più ostinatamente ed a dispetto dei crescenti
segnali di impossibilità concreta, quello che aveva sempre fatto nella
Modernità, la lunga “golden age” dell’Occidente. Inventò il capitale che
crea se stesso (il capitale “autocosciente” che alcuni fedeli hegeliani
chiamano infatti “capitalismo assoluto”, poiché il meccanismo di
riproduzione è quel “causa sui” con cui si pensò Dio già nell’antichità)
non potendo più far affidamento sulla vecchia versione. Quella in cui
il capitale anticipa se stesso per attivare tramite l’idea,
l’investimento ed il lavoro, cioè la produzione e scambio, la sua stessa
riproduzione . Ma questa ultima invenzione tutt’ora in auge, ebbe a che
fare più con i trucchi per coprire l’imbarazzo sulla non più completa
efficienza ed efficacia del meccanismo idolatrato come “modo occidentale
di stare al mondo”, che con l’adattamento sistemico alla nuova Grande
Complessità. Non avendo a fondo capito come e perché funzionava il
meccanismo, quanto il meccanismo dipendesse da ingressi (di materie ed
energie) e da uscite, entrambe sparse su tutto il globo asservito allo
sfarzo della galassia centrale, non si capì che la non più centralità
della galassia retroagiva sulla galassia stessa, sul suo sfarzo, sulla
sua compattezza, sulle orbite di tutte le sue componenti, sul suo stesso
“senso” o come si dice il filosofia: essenza.
Il “lungo addio” della Modernità che
accompagna tristemente la perdita di senso dell’Occidente nato in una
“Gloriosa rivoluzione” (Inghilterra 1688-89) e terminante in una lunga e
dilaniante, ingloriosa involuzione, si riflette in un pensiero espresso
con linguaggi sempre più oracolari od elitari (cosa meglio della
“forma” per occultare l’assenza di “sostanza”?), in conventicole
accademiche sempre più “scolastiche”, rigidità canoniche ed ortodosse
accanto a liquidità indistinguibili (in cui non si riesce a distinguere
acqua da acqua), denominazioni sempre più sconcertate che si appellano
solo a ciò che non è più (i vari “post-qualsiasi-cosa” che sembrano gli
unici abitanti di quello che ormai è il post-pensiero) e il sesto senso
della fine di qualcosa-ma-non-saprei-bene-dire-cosa, gli “endismi”
ovvero le annuncianti “fine” della storia, della verità, del senso, del
linguaggio, dell’arte, della religione (questa magari era di moda
nell’800, ora “guarda un po’” sembra tornare al grido-lamento di “solo
un dio ci può salvare”), dell’uomo, del mondo, che campeggiano su
copertine di libri che si ricorderanno per la loro inutilità
irriflessiva, cronache del sentimento di paura e dispiacere per ciò che
sta finendo. Non sappiamo bene cosa, come e quanto tempo impiegherà a
finire, ma di certo sta finendo…
Che fare? Pensare!
Ci tocca ripensare tutto ed il Tutto. Ci
tocca ripristinare l’unica funzione umana che ha dato l’essenza della
specie, quel “pensiero che pensa se stesso” che Aristotele camuffò da
definizione di dio e che Hegel osò come ultima definizione della
filosofia stessa. Il pensiero filosofico deve sforzarsi di
reincorporare, quello che i pensieri specifici, scientifico-naturali e
scientifico-umani, hanno pensato sull’Io, sul Mondo, sulla loro
relazione. Rendere questi pensati dei concetti e trovarne la possibile
relazione sistemica in un pensiero generale che funga da “voler essere”
da cui scaturire il “dover fare” dell’azione politica. Per conoscere
l’Io, il Mondo, le loro interrelazioni, ci tocca ripensare l’Intero e lo
stesso come pensiamo ciò che pensiamo. Non sarebbe male una veloce ed
esplosiva purga scettica generalizzata (Sesto Empirico) che abbia in
oggetto tutto e il suo contrario. Forse dovremmo cominciare a criticare
la stessa funzione critica, accorpare la diade Bene e Male con la quale
abbiamo categorizzato il Mondo ed i nostri giudizi sino ad oggi. Se
finisce il sistema occidentale, finisce anche la sua negazione
determinata, non è meccanico che la fine della Tesi porti l’Antitesi a
farsi razionale levatrice della Storia, perché di soluzioni
propriamente dette, il passato secolo e mezzo di pensiero critico, ne ha
pensate poche, a sprazzi e non coordinandole a sistema. Tant’è che la
crisi del Grande Male (il capitalismo occidentale) non sta beneficiando
affatto il Grande Bene (il comunismo? il socialismo?), da cui quel
problema inverso malposto che traendo leggi dai fatti, sanziona ispirato
“non c’è più (e quindi non deve esserci) la diade destra-sinistra”. La
crisi della politica è la mancanza dell’idea di un posto possibile, in
cui portare le persone alla cui azione ci si appella. Fino a che non
avremo una teoria compiuta di un nuovo modo di stare al mondo,
possibile non solo per la ragion pura, ma soprattutto per quella
pratica, l’unica politica sarà l’oscillazione tra cartelli del “contro”,
cartelli del “pro” all’esistente magari da riformare-riformando-le
riforme, nel mezzo di una generalizzata apatia involuta. Ripensare
tutto ed il Tutto implica nuovo metodo, nuove categorie e nuovi
concetti, pensiero che recuperi anche metodi, categorie e concetti
vecchi da assemblare però in nuovi sistemi in grado di pensare l’Intero.
Ci serve un nuovo punto di vista, un nuovo “se” da cui trarre “allora”
che non abbiamo ancora pensato. Il candidato naturale al “se” da cui
origina il pensiero ed un nuovo modo di pensare è la Complessità, il
concetto lungamente rimosso. Rimosso dall’agire pratico
politico-economico che ha allungato il tempo della nostra presa di
coscienza poiché “funzionava”, rimosso dalla scienza dura e morbida che
ha seguito le parti perdendosi il Tutto, concentrandosi sulle varietà a
scapito delle relazioni, rimosso dalla cecità e dall’afasia di una
autocoscienza filosofica che non essendo in grado di autoriformarsi, è
finita al margine dell’utilità umana.
Una filosofia dell’avvenire, secondo chi
scrive, dovrebbe dichiarare terminata la prima parte della filosofia
occidentale iniziata da una dichiarazione di Platone “prima di affrontare i problemi grandi e difficili, bisogna risolvere quelli piccoli e facili”
(Sofista, 218d, dichiarazione poi ripresa da Cartesio all’inizio della
Modernità ) e porsi il problema grande e difficile, che è quello che
abbiamo e non comprendiamo: la complessità.
La specie si è fondata sull’autocoscienza
per sviluppare quello straordinario adattamento che abbiamo scambiato
per evoluzione, il mondo è diventato complesso, così l’Io e così le loro
interrelazioni. E’ ora che diventi complesso anche il nostro pensiero
perché possa comprendere in che tempi simo capitati e possa ordinarci,
susseguenti soluzioni adattative. Prima di agire, pensiamoci! Solo il
pensiero può salvarci…
pierluigifagan.wordpress.com
Commenti
Posta un commento