Si scrive Call Center, si legge inferno

Il documento al centro delle proteste dei 900 Lap che impone ai dipendenti di rinunciare a una serie di diritti in cambio dell'ingresso in un bacino per nuove assunzioni.


Turni che possono arrivare fino a dieci ore consecutive, domeniche e giorni di riposo soppressi, l'obbligo di chiedere il permesso persino per andare in bagno o per bere un bicchiere d'acqua, pressioni da parte dei team leader per vendere il più possibile, sotto la "promessa"di non essere riconfermati il mese successivo.

Vita da call center, ed è tensione alle stelle ad Almaviva Contact, un call center di Palermo.

Scontro tra i sindacati, lavoratori in rivolta e le testimonianze dei precari sulle condizioni al limite dello sfruttamento in cui sono costretti a lavorare.

Nel giorno dell'atto di conciliazione, il documento al centro delle proteste dei 900 lavoratori a progetto (Lap) che impone ai dipendenti di rinunciare a una serie di diritti in cambio dell'ingresso in un bacino per nuove assunzioni - i precari del call center si sono piazzati sotto la sede dell'azienda, bloccando di fatto la firma dell'accordo.

Cgil da un lato e azienda, Cisl e Uil dall'altro. Inviata all'azienda una nuova ipotesi di conciliazione. Viene riaffermato il diritto di intentare causa alla società e viene cancellata la parte in cui Almaviva chiede ai lavoratori di dichiarare sostanzialmente il falso: di non essere mai stati soggetti a turni, orari fissi e gerarchie, ma di essere sempre stati liberi e quindi non equiparabili a lavoratori subordinati. La società, con Cisl e Uil, dice no alla nuova proposta.

La vertenza di Palermo torna a proporre le condizioni di lavoro e di vita nei call center. Un mondo a parte, poco visitato dai controlli sui diritti dei lavoratori.

"I nostri contratti non prevedano turni - dice un lavoratore - ma i nostri superiori, i "team leader", ci impongono di restare anche dieci ore nella nostra postazione. La sera orno a casa con le orecchie incandescenti e senza voce. Non possiamo ribellarci, se lo facessimo, il mese successivo non potremmo lavorare".


globalist.it

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